V404 Cygni è uno dei buchi neri conosciuti più vicini alla Terra (8000 anni luce da noi) e si è acceso nel giugno 2015 dopo più di 25 anni di quiescenza. Come tutti i buchi neri, anche questo è famoso per la voracità con cui “ingurgita” il materiale che gravita attorno a esso nel caos dell’ambiente circostante. Nel processo di accrescimento del buco nero, una piccola porzione di materiale viene espulso violentemente a velocità prossime a quella della luce in potenti e luminosi getti di plasma caldo, che formano due colonne lungo l’asse di rotazione del buco nero. Ma come si forma il getto?

Un gruppo di astronomi (di cui fanno parte anche tre ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica) ha raccolto nuovi elementi per risolvere l’enigma utilizzando il telescopio spaziale NuSTAR della NASA (a cui collabora anche l’Agenzia Spaziale Italiana) e una fotocamera veloce chiamata ULTRACAM montata sul telescopio William Herschel di La Palma (Spagna). Gli scienziati sono stati in grado di misurare la distanza percorsa dalle particelle presenti nei getti prima di “accendersi” e iniziare a emettere luce. Questa distanza è stata chiamata “zona di accelerazione”.

I ricercatori hanno guardato a due sistemi nella Via Lattea chiamati “Binarie X”, ognuno dei quali consiste in un buco nero che cattura gli strati esterni di una stella “compagna”. Hanno studiato questi sistemi in momenti diversi durante periodi di outburst, ovvero quando un disco di materiale catturato dalla stella si forma intorno al buco nero e si riscalda all’avvicinarsi ad esso diventando quindi molto luminoso. Una di queste binarie è proprio V404 Cygni, una sorgente di alta energia nella costellazione del Cigno. L’altra, chiamata GX 339-4, e il suo buco nero sono molto più vicini che nel sistema V404 Cygni.

Nonostante le loro differenze, i sistemi hanno mostrato un ritardo simile tra i raggi X rivelati da NuSTAR e dalla luce visibile catturata da ULTRACAM. Il ritardo era di circa un decimo di secondo in entrambi i casi: meno di un battito di ciglia, ma significativo per la fisica dei getti provenienti dai buchi neri.

«Questi risultati ci dicono qualcosa di molto interessante, cioè che lo stato fisico del plasma che alimenta il getto – la velocità, la temperatura e il volume delle particelle – può essere più importante dell’estensione o della luminosità del disco di accrescimento per determinare la dimensione della zona di accelerazione», ha detto Poshak Gandhi, primo autore dello studio pubblicato sulla rivista Nature Astronomy, astronomo presso l’Università di Southampton (Regno Unito).

La migliore ipotesi trovata dagli scienziati per spiegare questi risultati è che i raggi X vengono originati da materiale molto vicino al buco nero. Forti campi magnetici accelerano un po’ del materiale ad altissima velocità lungo il getto. Questo fa sì che le particelle entrino in collisione a velocità prossime a quella della luce, e questo fornisca al plasma l’energia necessaria per emettere la luce catturata da ULTRACAM. Ma il fenomeno in che punto del getto avviene? Ce lo dice il ritardo misurato tra la radiazione visibile e quella ai raggi X: visto che queste particelle viaggiano alla velocità della luce, gli scienziati possono stimare la massima distanza percorsa in quell’intervallo di tempo. Questa estensione lunga circa 30 mila chilometri rappresenta la zona di accelerazione interna del getto, dove il plasma riceve l’accelerazione più forte e si “accende” emettendo luce.

I risultati sono promettenti anche perché sembrano coerenti con le attuali evidenze provenienti dai buchi neri supermassicci, molto più grandi di quelli studiati in questo lavoro (circa dieci masse solari e un’estensione di una decina di chilometri). In un sistema super massiccio chiamato BL Lacertae, con una massa 200 milioni di volte il nostro Sole, gli scienziati hanno scoperto ritardi temporali milioni di volte più lunghi di quelli trovati in questo studio. Questo vuol dire che la dimensione dell’area di accelerazione dei getti potrebbe essere collegata con la massa del buco nero.

I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista Nature Astronomy nell’articolo “An elevation of 0.1 light-seconds for the optical jet base in an accreting Galactic black hole”, di P. Gandhi (Department of Physics and Astronomy – University of Southampton