Il nostro pianeta non è l’unico del Sistema Solare in cui si verifica lo spettacolare fenomeno delle aurore. Eventi simili sono già stati osservati ad esempio su Marte, Giove, Saturno e Mercurio. Ora un team internazionale di astronomi svela per la prima volta il meccanismo alla base delle aurore di Mercurio, il mondo più vicino alla nostra stella e ancora poco conosciuto.

Almeno fino all’arrivo di BepiColombo, missione congiunta Esa-Jaxa, partita nell’ottobre 2018 per andare a studiare Mercurio, il pianeta degli estremi. Ed è proprio utilizzando i dati raccolti da BepiColombo che è stato possibile confermare la presenza delle aurore sul primo pianeta del Sistema Solare.

Il nuovo studio, guidato dall’Institut de Recherche en Astrophysique et Planétologie (Irap) francese e pubblicato su Nature Communications, ha rivelato per la prima volta come gli elettroni che piovono sulla superficie di Mercurio possano innescare aurore ad alta energia.

Le aurore terrestri sono generate dalle interazioni tra il vento solare, ovvero il flusso di particelle cariche emesse dal Sole, e lo strato superiore elettricamente carico dell’atmosfera del nostro pianeta, chiamato ionosfera. Ma Mercurio ha soltanto un sottilissimo strato di atmosfera, chiamato esosfera: per questo le sue aurore sono generate dal vento solare che interagisce direttamente con la superficie del pianeta.

Durante il suo primo flyby di Mercurio, avvenuto nell’ottobre 2021, BepiColombo è riuscito a intercettare questo meccanismo, analizzato poi dal team di ricerca guidato dall’Irap. «Per la prima volta, abbiamo visto come gli elettroni vengono accelerati nella magnetosfera di Mercurio e precipitati sulla superficie del pianeta. Sebbene la magnetosfera di Mercurio sia molto più piccola di quella terrestre e abbia una struttura e una dinamica diverse, abbiamo la conferma che il meccanismo che genera le aurore è lo stesso in tutto il Sistema Solare», spiega Sae Aizawa, prima firma dello studio, ricercatrice all’Irap e di recente anche all’Istituto di Scienze Spaziali e Astronautiche della Jaxa e all’Università di Pisa.

La missione BepiColombo è composta da due veicoli spaziali, il Mercury Planetary Orbiter (Mpo) guidato dall’Esa e il Mercury Magnetospheric Orbiter (Mmp, chiamato Mio dopo il lancio) guidato dalla Jaxa, che sono attualmente in configurazione agganciata per la crociera di sette anni verso l’orbita finale.

Durante il suo primo flyby di Mercurio, BepiColombo è sceso in picchiata a soli 200 chilometri dalla superficie del pianeta. Le osservazioni degli strumenti al plasma a bordo di Mio hanno permesso di osservare per la prima volta simultaneamente diversi tipi di particelle cariche provenienti dal vento solare in prossimità di Mercurio. Tra queste, gli elettroni ad alta energia, che piovono sulla superficie di Mercurio ad altissime velocità. Non essendo ostacolati da una spessa atmosfera, questi elettroni interagiscono direttamente con il materiale sulla superficie del pianeta, causando così l’emissione di raggi X. Questo fenomeno, a sua volta, dà origine a un bagliore aurorale.

Le aurore di Mercurio erano già state osservate in precedenza dalla missione Messenger della Nasa. Ma i meccanismi alla base di questo fenomeno non erano ancora stati compresi fino all’arrivo intorno a Mercurio di BepiColombo.

Dal suo primo flyby – quello che ha permesso a Sae Aizawa e colleghi di seguire la pioggia di elettroni fino alle aurore di Mercurio – Bepi ha già effettuato altri due incontri ravvicinati con il pianeta, rispettivamente il 23 giugno 2022 e il 19 giugno 2023. Non resta dunque che attendere le nuove scoperte che la comunità scientifica internazionale farà grazie a queste ulteriori miniere d’oro di dati sul primo mondo del nostro sistema planetario.

 

Immagine in apertura: Rappresentazione artistica della missione Esa/Jaxa BepiColombo in volo attraverso gli elettroni che possono innescare aurore di raggi X sulla superficie di Mercurio. Crediti: Thibaut Roger/Europlanet (CC BY-SA 4.0)