In un futuro neppure troppo lontano, interi equipaggi saranno impegnati in missioni di lunga durata sulla Luna e su Marte. Ma per ridurre i rischi legati a queste nuove frontiere dell’esplorazione spaziale, c’è ancora un grande ostacolo da aggirare: le radiazioni cosmiche.

Fuori dal bozzolo protettivo dell’atmosfera terrestre esiste infatti un universo pieno di emissioni potenzialmente dannose per la salute degli astronauti. Avventurandosi nello spazio profondo si trovano forme di energia molto più potenti di quelle che possiamo incontrare sul nostro pianeta: le radiazioni cosmiche sono composte da atomi i cui elettroni sono stati letteralmente spogliati, perché lo spazio interstellare provoca un’accelerazione delle particelle quasi a sfiorare la velocità della luce. Questa “corsa folle” nell’universo fa perdere agli elettroni tutto il loro rivestimento, finché non resta soltanto il nucleo: ecco che i raggi cosmici possono essere veri e propri proiettili invisibili per i veicoli in viaggio attraverso lo spazio.

Studi recenti hanno dimostrato che l’esposizione prolungata alle radiazioni spaziali può aumentare il rischio di tumori e danneggiare il sistema nervoso centrale e le funzioni cognitive. Per questo sono in corso continue attività di ricerca per capire esattamente cosa può accadere agli astronauti in orbita. Il laboratorio migliore al momento è la Stazione spaziale internazionale, ed è qui che si concentra la maggior parte degli sforzi per comprendere meglio i rischi legati alle radiazioni cosmiche.

Una ricerca condotta da un team internazionale proveniente da Belgio, Russia e Germania ha ora scoperto un nuovo effetto sul cervello umano a seguito della prolungata permanenza nello spazio. Lo studio, pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences, individua una possibile relazione tra i viaggi spaziali e l’accrescimento dei ventricoli cerebrali. Il sistema dei ventricoli del cervello è costituito da canali interconnessi a spazi che si susseguono l’un l’altro contenuti nell’encefalo, che provvedono alla produzione del liquido cefalorachidiano (o liquor) e al suo smistamento nel sistema nervoso centrale.

La nuova ricerca ha analizzato i ventricoli cerebrali di 11 cosmonauti che hanno trascorso una notevole quantità di tempo a bordo della Iss, per una media complessiva di 169 giorni nello spazio. Ciascuno di loro è stato sottoposto a risonanza magnetica prima del lancio, al ritorno dalla missione e infine di nuovo sette mesi dopo. I risultati mostrano un aumento in media dell’11.6% delle dimensioni di tre ventricoli cerebrali dei cosmonauti appena tornati dallo spazio. Sette mesi dopo il termine della missione, i ventricoli restano in media ancora 6.4% più larghi rispetto alle dimensioni che avevano prima dell’esposizione alla microgravità.

Il prossimo passo sarà capire se si tratta di una modifica permanente, oppure che gradualmente si attenua con il passare del tempo. Anche gli eventuali rischi per le funzioni cerebrali e più in generale per la salute degli astronauti sono ancora ignoti: serviranno ulteriori studi per accertare meglio gli effetti della microgravità sul cervello, anche in vista delle future missioni di lunga durata nello spazio profondo.