La dismissione della Stazione Spaziale Internazionale, prevista per l’inizio del 2031, sarà il più imponente rientro in atmosfera nella storia dell’esplorazione spaziale. 420 tonnellate di materiale cadranno sulla Terra per bruciare nell’atmosfera e poi inabissarsi in quello che è considerato il ‘cimitero delle navi spaziali’: la zona dell’oceano Pacifico più lontana da qualsiasi terra emersa, famosa come ‘Punto Nemo‘.
Una procedura sfruttata per decenni dagli operatori di tutto il mondo e che nel caso della Iss sta destando qualche preoccupazione da parte degli studiosi degli oceani.
Secondo un report appena pubblicato dalla Nasa, la Stazione Spaziale mostra segni evidenti del naturale logorio causato da anni passati in orbita. Ci sono perdite d’aria e crepe che rendono ormai impossibile un’ulteriore estensione delle attività oltre l’inizio della prossima decade.
La Nasa ha analizzato varie possibilità su come terminare la Stazione. Si è proposto di spostarla in un’orbita più alta dell’attuale, di smontarla, anche di lasciarla ricadere sul pianeta in balìa degli eventi, senza nessun rientro controllato. Alla fine si adotterà la soluzione di sempre, inabissarla nel Pacifico dopo una serie di manovre tese a garantire la caduta in un’area prestabilita.
Per ottimizzare quest’operazione la Nasa ha deciso di utilizzare un veicolo spaziale apposito, il cui compito sarà di frenare la Iss per farla scendere pian piano di quota. Il veicolo, chiamato Usdv (United States Deorbit Vehicle), verrà ingegnerizzato e costruito da SpaceX e sarà una rivisitazione della capsula Dragon, potenziata con serbatoi più grandi e ben 46 motori ‘Draco’ per garantire la spinta necessaria.
Sebbene una buona parte dei componenti della Iss finirà incenerita durante la caduta a causa di attriti atmosferici, ci sono alcuni elementi che sono più resistenti alle temperature estreme e finiranno nell’oceano.
Sono questi ultimi che, trattandosi di un enorme veicolo spaziale, impensiericono alcuni ambientalisti e oceanologi.
Il biologo molecolare Edmund Maser, dell’Istituto di Tossicologia e Farmacologia per Naturalisti presso Scuola di Medicina dell’Università s Schleswig-Holstein di Kiel, in Germania, ritiene la deorbitazione in generale una scelta discutibile. Questo in conseguenza del fatto che l’utilizzo di zone remote dell’oceano come ‘discarica’ (non solo di veicoli spaziali) in alcuni casi ha rappresentato un problema per la salute degli ecosistemi marini locali a causa della dispersione nelle acque di sostanze tossiche e cancerogene.
«Le future generazioni ci indicheranno come i responsabili – ha spiegato Maser – e dovranno fare grandi sforzi per correggere i nostri attuali errori».
Per minimizzare, se non evitare, questi potenziali danni, sono in corso degli studi mirati. L’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente (Epa) americana sta infatti vagliando tutti gli aspetti dell’inabissamento dei resti della Stazione Spaziale, per poi decidere le procedure normative adeguate a regolamentare l’operazione.
Un’attività che richiede tempo, anche perché ci sono passaggi nella deorbitazione che restano ancora poco noti. Dopo decenni di attività non si conosce più con esattezza quali e quanti sono i materiali presenti nella Stazione Spaziale, il che significa che al momento è impossibile prevedere con precisione cosa brucerà e cosa finirà effettivamente in mare.
Senza un’accurata analisi da parte di ricercatori e studiosi, potrebbero sopravvivere sostanze potenzialmente nocive per la flora e fauna marina.
Qualsiasi siano le preoccupazioni, far cadere i resti della Stazione Spaziale Internazione nel Pacifico resta al momento la soluzione migliore, meno gravosa e più sicura per l’incolumità degli esseri umani.
In futuro però si dovranno per forza adottare nuovi metodi, evitando gli attuali. Come spiega George Leonard, scienziato capo all’Ocean Conservancy, un gruppo di difesa ambientale no profit con sede a Washington D.c, negli USA: «Gettare rifiuti spaziali nell’oceano non è una novità, ma è un problema che peggiorerà nel tempo. Non c’è una soluzione facile, ma non possiamo ignorare le inevitabili conseguenze dell’aumento dei rifiuti nel lungo termine, che sia plastica monouso o rottami spaziali».
Crediti foto:Nasa