Sono stati scoperti nel 2018 e hanno immediatamente suscitato profondi interrogativi nella comunità scientifica, mostrandosi come un rompicapo sia per gli astrofisici osservativi che per quelli teorici: si tratta dei ‘transienti ottici blu veloci’ (Fast Blue Optical Transient, o in breve Fbot), un fenomeno inedito ascrivibile alla categoria degli eventi astronomici transitori.
Uno studio, pubblicato di recente su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, ha cercato di comprendere quali processi siano all’origine di questi misteriosi oggetti celesti che hanno una durata limitata nel tempo (articolo: “Shocked jets in CcsNe can power the zoo of fast blue optical transients”). L’indagine, nel cui ambito è stato realizzato un nuovo modello, è stata coordinata dalla Northwestern University di Evanston (Illinois) e ha visto la partecipazione di Raffaella Margutti, astrofisica italiana in forze all’Università della California-Berkeley; la simulazione informatica è stata sviluppata con i supercomputer del Texas Advanced Computing Center presso l’Università del Texas-Austin.
Ma cosa sappiamo al momento di questi Fbot? Molti aspetti, come le origini, sono ancora poco chiari perché i rappresentanti di questa categoria scoperti sinora sono troppo pochi: comunque, sono il fenomeno ottico più scintillante nell’Universo e la loro colorazione blu è dovuta al calore intenso. Gli autori dello studio, tramite il modello, hanno provato a formulare un’ipotesi sulla genesi degli Fbot: questi eventi luminosissimi e subitanei potrebbero derivare dai bozzoli in raffreddamento che circondano i getti emessi da stelle in fin di vita. Si tratta della prima simulazione pienamente coerente con tutte le osservazioni degli Fbot effettuate fino a questo momento.
Quando un astro massiccio giunge al ‘capolinea’, può emettere flussi di materiale a un livello di velocità vicino a quello della luce. Questi getti entrano in collisione con gli strati della stella che stanno collassando e intorno a essi si forma un bozzolo. Il modello mostra che quando il getto spinge il bozzolo verso l’esterno – lontano dal nucleo dell’astro che sta cedendo – si raffredda, rilasciando calore sotto forma di un’emissione Fbot. In pratica – hanno commentato gli studiosi – il getto prende il via nelle pieghe profonde di una stella e poi si fa largo per ‘scappare’.
Gli Fbot sono stati inizialmente rilevati nella lunghezza d’onda dell’ottico e svaniscono con la stessa rapidità con cui sono apparsi, dopo aver raggiunto il picco di luminosità nel giro di pochi giorni. Gli astrofisici, considerando queste caratteristiche, si sono chiesti se questi eventi fulminei fossero correlati a un’altra categoria di transienti: i lampi di raggi gamma (Gamma ray burst – Grb). Infatti, queste esplosioni – le più forti e luminose in tutte le lunghezze d’onda – sono associate anche a stelle morenti: quando un astro massiccio esaurisce il suo carburante e collassa in un buco nero lancia dei getti che producono una potente emissione di raggi gamma.
Tuttavia, analisi più approfondite hanno mostrato una profonda differenza tra i due tipi di eventi transitori, che quindi non hanno correlazioni: le stelle che producono Grb sono prive di idrogeno e quindi nel lampi di raggi gamma non ci sono tracce di questo elemento, che invece è presente negli Fbot. In base al modello, gli studiosi ritengono di aver trovato una risposta a questa discrepanza: le stelle ricche di idrogeno tendono a ospitare questo gas nel loro strato più esterno che è troppo denso per essere penetrato da un getto. Quindi, il getto non è in grado di produrre un Grb, ma trasferisce tutta la sua energia al bozzolo, l’unico componente che riesce a sfuggire alla stella e a originare emissioni Fbot; secondo gli scienziati, anche in quest’area il modello utilizzato per il paper risulta coerente con le osservazioni.
Il gruppo di lavoro ritiene che lo studio schiuda nuovi scenari di ricerca su questi transienti ancora poco conosciuti e che la simulazione possa aprire la strada a strumenti informatici di indagine più avanzati nell’ambito degli Fbot.
In alto: un frame dalla simulazione utilizzata per lo studio (Crediti: Ore Gottlieb/Northwestern University)