Era il 4 ottobre 1957 quando l’Unione Sovietica lanciò con successo lo Sputnik 1, il primo satellite artificiale a orbitare attorno alla Terra. Da allora, in meno di 70 anni oltre 21.000 satelliti sono stati mandati nello spazio, attraverso circa 7.000 lanci riusciti.

Di questi satelliti, più di due terzi si trovano ancora nello spazio circumterrestre, causando un affollamento delle orbite più gettonate. Un effetto collaterale della spinta esplosiva della space economy che negli ultimi anni ha portato la Terra a essere circondata da migliaia di satelliti che dallo spazio forniscono oggi servizi di telecomunicazione e navigazione, oltre a monitorare la superficie e l’atmosfera terrestre.

«Fino al 2015 venivano lanciati circa 200 satelliti all’anno in media e poi invece un’improvvisa crescita esponenziale ha portato a 2600 i lanci nel 2023, cioè più di 10 volte maggiore del periodo precedente – afferma Marco Castronuovo, Responsabile dell’Ufficio Osservazione e Sorveglianza di Asi – In particolare ci sono due regioni orbitali che presentano un grande affollamento. La regione Leo, cioè le orbite basse che vanno tra i 300 e i 1000 km di quota, e l’orbita Geo, cioè quella geostazionaria, che è unica sia come quota, a 35.786 km, sia come proprietà: un satellite in orbita geostazionaria viene visto da un osservatore a terra come fisso nel cielo, proprio perché gira alla stessa velocità angolare della Terra. E su questo anello a 35.000 km tutti i satelliti sono posti in fila uno dietro l’altro».

Degli oltre 14 mila satelliti oggi in orbita, solo 11.000 risultano ancora operativi. Gli altri sono infatti fuori servizio e fuori controllo, impossibili da manovrare da Terra perché privi di propellente. All’affollamento nelle orbite Leo e Geo si aggiunge così un’altra criticità: un numero sempre maggiore di collisioni tra satelliti, che avvengono a velocità elevatissime e che generano nuvole di detriti, il cosiddetto space debris, ovvero frammenti spaziali che possono a loro volta colpire e distruggere altri satelliti, alimentando così incidenti a catena.

«Il numero di satelliti non operativi o non funzionanti in orbita è più che raddoppiato in questi cinque anni – afferma Tiago Soares, Lead Engineer del Clean Space Office di Esa Quindi vediamo un chiaro aumento del numero di oggetti che non sono controllati in orbita. Penso sia molto importante considerare ciò che chiamiamo space debris: questi frammenti possono provenire da esplosioni dei satelliti non più operativi o da collisioni. In questo contesto stiamo seguendo attivamente più di 40,000 di questi oggetti in orbita Leo; quelli che possiamo tracciare sono gli oggetti di circa 10 cm di dimensione: qualsiasi frammento più piccolo non riusciamo a vederlo e questi piccoli oggetti sono, a mio avviso, i veri protagonisti in termini di rischio. Stimiamo che ci siano più di 1 milione di oggetti di dimensione di 1 cm in orbita bassa terrestre. Ora un corpo di 1 cm di dimensione si muove in questa regione così velocemente per stare in orbita che ha un’energia equivalente a quella di una bomba a mano e un impatto con uno di questi detriti molto piccoli sarebbe sicuramente in grado di distruggere una missione operativa: sono quelle che chiamiamo collisioni fatali e generano centinaia di nuovi piccoli detriti che, ancora una volta, potremmo non essere in grado di vedere. Questa è quella che noi chiamiamo la sindrome di Kessler, ovvero questo effetto a cascata».

La presenza in orbita di satelliti in avaria e privi di capacità di manovra rende ancora più complesso interrompere l’effetto domino generato dalle collisioni. Anche quando i detriti sono tracciabili, infatti, non sempre è possibile evitarli.

«Gli oggetti tracciati modificano continuamente la loro orbita a causa delle cosiddette perturbazioni e ciò rende necessario un monitoraggio continuo per mantenere un catalogo sempre aggiornato – afferma Marco Castronuovo, Responsabile dell’Ufficio Osservazione e Sorveglianza di Asi – Gli operatori satellitari quindi si preoccupano di calcolare autonomamente oppure di ricevere un servizio di allerta per il pericolo di collisioni e di mettere in atto le opportune manovre di evitamento. Non tutti i satelliti però hanno la capacità di manovra, non sono dotati tutti di sistemi di propulsione e anche questo, il fatto di fornire una manovrabilità agli oggetti che ne sono privi, è un ambito di sviluppo che mira a limitare lo space debris».

Per mitigare il problema dello space debris diventa quindi fondamentale rimuovere dalle orbite più congestionate i satelliti dismessi facendoli rientrare a Terra e bruciare una volta nell’atmosfera terrestre, oppure portandoli su orbite cimitero prive di satelliti operativi.

«Per i satelliti che si trovano entro i 2.000 chilometri di altitudine, la regola secondo gli standard odierni richiede di farli rientrare nell’atmosfera terrestre e di farlo con il più basso rischio possibile a Terra – afferma Tiago Soares, Lead Engineer del Clean Space Office di Esa Ma per i satelliti che si trovano al di sopra di questa altitudine, come nel caso dei satelliti geostazionari, molto utilizzati per le telecomunicazioni, viene utilizzata quella che si chiama orbita cimitero: ovvero si dispone il satellite in orbite che sappiamo non saranno utilizzabili nel lungo termine, quindi non necessarie a lungo termine. Ovviamente, questa non è comunque l’opzione preferibile. Anche se si è fuori dalla regione Leo, si dovrebbe fare attenzione a non lasciare satelliti o oggetti in orbita incustoditi. Tuttavia, se si è sopra una certa altitudine, diventa molto difficile per una missione fare un rientro a Terra perché l’energia necessaria per questa manovra sarebbe molto elevata e ciò influenzerebbe completamente la progettazione di questi satelliti».

Per ridurre il rischio di collisioni e la produzione di nuovi detriti spaziali, un’importante strategia è prolungare la vita operativa dei satelliti in orbita. A questo scopo, entra in gioco il settore dell’In-Orbit Servicing (Ios): servizi prestati da veicoli spaziali specializzati che, come veri e propri ‘carri attrezzi’ nello spazio, si agganciano saldamente ai satelliti in avaria per poter effettuare su di loro operazioni di assistenza in orbita.

«Nello specifico, fra i servizi in orbita si annoverano: il refueling, cioè il rifornimento di propellenti che vanno ad alimentare i motori dei satelliti atti a garantire la manovrabilità degli stessi nello spazio; la riparazione, la manutenzione di eventuali guasti di un satellite che ne mette in pericolo la manovrabilità – afferma Marcello Di Costa, Responsabile di Settore Servizi in Orbita e Space based Traffic Management di Asi E la AOCS takeover, un acronimo inglese che vuol dire attitude and control system, l’aggancio tra i due satelliti, il servicer e il cliente, affinché il servicer prenda direttamente il controllo del satellite cliente per effettuare manovre di vario tipo: manovre di collision avoidance, cioè evitare collisioni previste con altri satelliti; lo station keeping, cioè il mantenimento della posizione orbitale del satellite cliente; la relocation, cioè il cambio di orbita; il reorbiting o graveyarding anche detto, cioè lo spostamento del satellite cliente in genere geostazionario da dismettere su un’orbita meno critica, cosiddetta orbita cimitero, che si trova a una quota più alta rispetto a quella geostazionaria. E infine il deorbiting, cioè il rientro controllato e sicuro in atmosfera dove per effetto della resistenza aerodinamica durante la caduta si generano dei carichi termomeccanici così elevati che i satelliti, progettati volutamente anche per non resistere a tali condizioni, si disintegrano».

Nel settore dell’assistenza in orbita l’Italia si pone all’avanguardia, grazie al programma In-Orbit Servicing Demo Mission dell’Agenzia Spaziale Italiana. Finanziato nell’ambito del Pnrr, il progetto punta a sviluppare un veicolo spaziale per la prima missione dimostrativa italiana dedicata ai servizi in orbita, aprendo nuove prospettive per la gestione sostenibile dello spazio.

«Asi ha firmato un contratto con un raggruppamento temporaneo di imprese di cui fanno parte le aziende Thales Alenia Space Italia, che è la mandataria, Leonardo, Telespazio, Avio e D-Orbit, col fine di sviluppare una missione dimostrativa in orbita bassa, in orbita Leo, volta a qualificare le tecnologie critiche abilitanti, le competenze di sistema e le capacità operative peculiari per future missioni di servizi in orbita, eseguendo diverse operazioni robotiche su satelliti già in orbita – afferma Marcello Di Costa, Responsabile di Settore Servizi in Orbita e Space based Traffic Management di Asi  Si tratta di una missione ambiziosa, la prima e più avanzata nel suo genere in Europa. Le attività contrattualizzate prevedono la progettazione, lo sviluppo della missione dimostrativa in orbita fino alla sua qualifica a terra e più nello specifico: la qualifica a terra del segmento spaziale costituito da due satelliti: un servicer cioè il satellite che realizza i servizi, e un satellite cliente target, che verrà lanciato insieme al satellite servicer. Il servicer sarà dotato di tecnologie robotiche abilitanti per queste applicazioni. Si susseguiranno delle fasi di ispezione e operazioni di prossimità, attracco in modalità cooperativa e non del satellite cliente, operazioni dimostrative di rifornimento di propellente, assemblaggio di un componente meccanico, la presa del controllo da parte del servicer del cliente target, per dimostrare le funzioni di stabilizzazione d’assetto di una relocation, cioè uno spostamento orbitale, e del deorbiting finale in condizioni di sicurezza. Il fine ultimo di tale investimento dell’Asi è accrescere la capacità nazionale e la prontezza tecnologica a disposizione della filiera spaziale del nostro Paese».

Nello scenario dell’In-Orbit Servicing, Asi è in prima fila anche in Europa finanziando in ambito Esa lo sviluppo della missione Rise. Guidata dall’industria italiana D-Orbit, co-finanziatrice e primo appaltatore, questa missione dimostrativa dovrà agganciarsi a un satellite geostazionario, manovrarlo e infine rilasciarlo, garantendo sempre la continuità delle comunicazioni con la Terra e con il suo carico utile.

«La missione sarà condotta in orbita geostazionaria e prevede la dimostrazione di capacità di attracco e di AOCS takeover di un satellite cliente geostazionario – afferma Marcello Di Costa, Responsabile di Settore Servizi in Orbita e Space based Traffic Management di Asi La presa del controllo delle funzioni di AOCS è funzionale sia all’estensione di vita operativa del satellite cliente, contribuendo a mantenere lo slot assegnatogli sull’orbita geostazionaria; la presa di controllo serve anche allo smaltimento del satellite attraverso una manovra di reorbiting o graveyarding, cioè di spostamento del satellite cliente in orbita cimitero. Una volta completata la missione dimostrativa, con il reorbiting del satellite cliente da parte del satellite sviluppato da D-Orbit, quest’ultimo rimarrà in orbita per ulteriori 7 anni a disposizione per missioni a carattere commerciale».

L’impegno di Asi ed Esa nella lotta allo space debris si concretizza anche attraverso la loro partecipazione allo Iadc, l’Inter-agency space debris coordination committee. Questo forum internazionale, composto da 13 agenzie spaziali, ha pubblicato le prime linee guida per la mitigazione dei detriti spaziali nel 2002, aggiornate poi nel 2021.

«Le linee guida dello Iadc prevedono che i satelliti che terminano la loro vita operativa siano dismessi in modo opportuno e questo a seconda del regime orbitale che occupano – afferma Marco Castronuovo, Responsabile dell’Ufficio Osservazione e Sorveglianza di Asi – Ad esempio, i satelliti in orbita geostazionaria dovranno essere spostati su di un’orbita di parcheggio perenne, chiamata orbita cimitero, posizionata a 300 km al di sopra dell’anello geostazionario. I satelliti in orbita bassa invece dovranno essere rilasciati su di un’orbita tale che l’oggetto rientri in atmosfera entro 25 anni dal termine della missione. E questo può essere ottenuto in due modi diversi e innanzitutto dotando l’oggetto di un sistema capace di provocare un rapido decadimento orbitale, ad esempio con il dispiegamento di una vela o di un superfici che aumentino il drag aerodinamico, oppure con lo sparo di propulsori che abbassino l’orbita. In secondo luogo, si può rilasciare il satellite a una quota sufficientemente bassa che causi naturalmente il decadimento orbitale e il rientro atmosfera entro 25 anni».

Lo Iacd mira tuttavia a ridurre a 5 anni la permanenza in orbita per un satellite non più operativo, un obiettivo che anche Esa sta perseguendo con il suo paradigma chiamato zero debris approach. Nel 2023 l’agenzia ha emesso 8 raccomandazioni con lo scopo di eliminare la produzione di detriti in orbite preziose entro il 2030.

«Vogliamo essere d’esempio e, per questo motivo, abbiamo già definito nuovi standard nel 2023 presentando i più avanzati e più rigorosi regolamenti in termini di space debris a livello globale – afferma Tiago Soares, Lead Engineer del Clean Space Office di Esa Esa vuole garantire che tutti i suoi satelliti in futuro saranno deorbitati e che non ci sia generazione di detriti in orbita. Questo è ciò che noi chiamiamo lo zero debris approach. Tutto ciò richiede ancora un avanzamento tecnologico e delle dimostrazioni. Ma l’obiettivo è che entro il 2030 tutte le nostre missioni saranno concepite per generare zero detriti e per non essere abbandonate in orbita. Quindi questo approccio si è tradotto in otto raccomandazioni, che hanno in qualche modo un impatto sulla progettazione futura dei satelliti».

Lo sguardo di Esa è oggi molto lungimirante, lanciando la sfida della lotta allo space debris per una futura gestione sostenibile anche delle orbite extraterrestri.

«Dobbiamo assicurarci di non replicare in altre orbite quello che sta accadendo oggi in orbita Leo, ovvero la sindrome di Kessler con la moltiplicazione dei detriti – afferma Tiago Soares, Lead Engineer del Clean Space Office di Esa Avevamo già protetto anche l’orbita Geo, ma ora vogliamo estendere tale protezione anche a tutto ciò che si trova sulle cosiddette orbite terrestri medie, ma anche fino alle orbite lunari che saranno sempre più utilizzate in futuro.
Non vogliamo ripetere gli stessi errori del passato. Le funzioni di smaltimento dei satelliti, soprattutto alla fine della loro vita, dovranno essere monitorate da vicino e i satelliti dovranno essere progettati per essere resilienti e affidabili. Non solo, anche se si progettano per essere i più affidabili possibile, ci saranno ancora satelliti che falliranno in orbita, quindi dovremo essere pronti a rimuoverli».

La gestione dei detriti spaziali è dunque una sfida globale sempre più urgente, che si estende oltre lo spazio circumterrestre e vede l’Italia già oggi protagonista.