La sua superficie è solcata in larga parte da una rete di rigature, un tratto distintivo del suo look che ha fatto discutere per oltre 40 anni gli studiosi: il volto rugoso è quello di Phobos, il maggiore e più interno dei satelliti naturali di Marte. Scoperto nell’agosto 1877 dall’astronomo statunitense Asaph Hall, il corpo celeste torna alla ribalta per uno studio sulla sua parte esterna, recentemente pubblicato su Planetary and Space Science (articolo: “Origin of Phobos grooves: Testing the Stickney Crater ejecta model”); la ricerca è stata condotta da un team di planetologi della Brown University di Providence (Stati Uniti). Secondo gli autori dell’articolo, i solchi che si snodano su Phobos sarebbero stati prodotti dal movimento di detriti rocciosi derivanti dallo Stickney, un bacino creatosi in seguito all’impatto con un asteroide. Le linee, visibili su gran parte della crosta del satellite naturale, sono note da tempo: sono state infatti osservate per la prima volta negli anni ’70 dalle sonde Nasa Mariner 9 e Viking 1.

Da allora, la comunità scientifica ha cercato di spiegare l’origine del fenomeno, formulando varie teorie come, ad esempio, l’influenza della forza di gravità del Pianeta Rosso, l’azione di detriti provenienti da impatti di vasta portata sulla superficie di Marte e, infine, un collegamento alle rocce derivanti dalla formazione del cratere Stickney. La terza ipotesi, proposta alla fine degli anni ’70, potrebbe essere plausibile. Infatti, la luna ha un diametro di soli 27 chilometri e, in relazione a queste dimensioni, il cratere ha un’ampiezza di ben 9 chilometri: i detriti provenienti dall’impatto che ha formato lo Stickney potrebbero effettivamente essere i responsabili dei segni su Phobos. I planetologi della Brown University ritengono che la connessione tra i solchi e la grande cavità presenti però qualche problema: ad esempio, non tutte le linee si dipartono in direzione radiale dal bacino e alcune di esse appaiono sovrapposte, come se si fossero formate in periodi differenti. Inoltre, le scanalature attraversano anche lo Stickney, mentre non sono presenti in alcune zone di Phobos.  Gli studiosi, giunti a questo punto, si sono giovati di modelli informatici (foto in alto) per comprendere se effettivamente l’ipotesi di detriti provenienti dal cratere possa essere coerente o meno; la simulazione effettuata in laboratorio ha ricreato il percorso delle rocce che si sono mosse dallo Stickney. I parametri di Phobos presi in considerazione per l’esperimento sono stati: forma, topografia, gravità, rotazione e orbita intorno a Marte.

Il modello ha mostrato che le rocce tendono ad allinearsi fra loro secondo percorsi paralleli, confermando quanto osservato su Phobos. Inoltre, considerate le piccole dimensioni e la debole gravità del corpo celeste, i detriti dello Stickney continuano a rotolare piuttosto che fermarsi dopo un breve tratto. Questa specie di ‘giro del mondo’ sulla piccola luna potrebbe spiegare sia perché alcune strisce non sono radiali rispetto al cratere, sia perché altre appaiono sovrapposte. In alcune prove, queste rocce ‘vagabonde’ hanno percorso tutta la luna e sono tornate al punto di partenza, vale a dire il cratere; questo spiegherebbe perché anche lo Stickney è solcato dalle ‘rughe’. Per quanto riguarda la zona di Phobos priva di segni, gli studiosi hanno notato che in essa è presente un’elevazione piuttosto contenuta e circondata da un orlo: la simulazione mostra che le rocce arrivano al bordo, spiccano un salto, come se si trovassero su un trampolino da sci, passano sopra la zona compresa nell’orlo e scendono sull’altro lato della luna.  Il team della ricerca, visti i risultati della sperimentazione, è convinto che il cratere Stickney possa essere effettivamente considerato la fonte delle ‘rughe’ di Phobos.