L’universo in cui viviamo è in espansione continua. Questa intuizione, conosciuta da quasi un secolo come legge di Hubble, ha cambiato completamente la cosmologia moderna. Ad averla, nel 1929, l’astronomo statunitense Edwin Hubble, che ha dato il nome all’omonima costante, indice dell’accelerazione del cosmo.

Eppure la teoria dell’accelerazione cosmica è lontana dalla sua completezza: il grande rompicapo resta proprio la definizione del tasso di espansione del cosmo. Ancora oggi, le varie osservazioni hanno portato ad attribuire alla costante di Hubble valori molto diversi tra loro, che vanno circa dai 67 ai 74 chilometri al secondo per megaparsec. Senza trovare una risposta soddisfacente rispetto a quanto l’universo stia effettivamente accelerando.

Una vera e propria rivoluzione è arrivata nel 2016, con la prima conferma dell’osservazione delle onde gravitazionali. La nascita dell’astronomia multimessaggera ha suggerito agli astronomi la possibilità di utilizzare un nuovo ‘metro’ per misurare l’espansione cosmica. In particolare, l’osservazione di onde gravitazionali sprigionate da una collisione di stelle di neutroni ha offerto uno strumento prima impensabile per calcolare in modo più preciso la costante di Hubble.

Ma ancora tra gli astronomi non vi è accordo su quella che viene chiamata ‘tensione di Hubble’, ovvero lo scarto tra il valore della costante misurato con i diversi metodi disponibili e il suo valore previsto dalla radiazione cosmica di fondo rimasta dopo il Big Bang.

Un aiuto sembra adesso arrivare dal più potente telescopio spaziale di tutti i tempi, il James Webb Space Telescope. Dall’inizio della sua attività scientifica, l’osservatore spaziale della Nasa sembra infatti aver già fornito uno sguardo nuovo sul dilemma della tensione di Hubble. A interpretare la prospettiva questo sguardo è stato il premio Nobel Adam Riess, che insieme al suo team di ricerca della Johns Hopkins University e dello Space Telescope Science Institute ha utilizzato le osservazioni del Webb per migliorare la precisione delle misure locali della costante di Hubble.

In uno studio accettato per la pubblicazione su The Astrophysical Journal e disponibile sul portale ArXiv, Riess e colleghi hanno utilizzato i dati forniti dal General Observers program 1685 del Webb. In particolare, gli scienziati si sono concentrati sulle osservazioni delle Cefeidi, stelle supergiganti famose in astronomia perché molto utili per misurare le distanze galattiche a causa della loro luminosità variabile.

Nel suo primo anno di attività, in soli due passaggi Webb ha osservato oltre 320 Cefeidi. Riess, Nobel per la fisica nel 2011, insieme al suo team di ricerca ha utilizzato questi dati per ricalcolare la costante di Hubble, collegando le variazioni di luminosità al tasso di espansione cosmica.

I risultati mostrano un sorprendente accordo con i dati già raccolti anni fa dal telescopio spaziale Hubble. Il grande valore aggiunto dato dal Webb sta però nel suo sguardo nella lunghezza d’onda infrarossa, che ha permesso al telescopio spaziale di ultima generazione della Nasa di ottenere dati meno rumorosi rispetto ad Hubble, come si vede dell’immagine in basso.

Serviranno molte altre osservazioni per risolvere finalmente il mistero della tensione di Hubble, ma l’accordo tra i due grandi telescopi spaziali fa sicuramente pensare che siamo sulla strada giusta.

 

Confronto tra le relazioni periodo-luminosità delle Cefeidi utilizzate per misurare le distanze. I punti rossi provengono da Webb, quelli grigi da Hubble. Crediti immagine: Nasa, Esa, Csa, J. Kang (STScI), A. Riess (STScI)