Gli astronauti di future colonie marziane o sulla Luna potrebbero trovare per la loro sopravvivenza un alleato tanto piccolo quanto resistente: i microrganismi.

Un esempio lo sono le colture di kombucha, ossia la miscela di batteri e lieviti che caratterizza la bevanda omonima ottenuta dalla fermentazione del tè zuccherato. I microbi di questa bevanda hanno due caratteristiche molto interessanti: sono in grado di generare ossigeno e sono resistenti a condizioni estreme. Un profilo che porta questi microrganismi a essere considerati potenziali protagonisti a supporto degli astronauti di future colonie extraterrestri.

«Grazie alla loro capacità di produrre ossigeno e di funzionare come biofabbriche, questa biotecnologia potrebbe migliorare significativamente le future missioni spaziali e gli sforzi di esplorazione umana dello spazio», afferma Nicol Caplin, scienziato dell’Esa che si occupa di esplorazione dello spazio profondo.

Esa è una delle agenzie che sta sperimentando da tempo la resistenza di questi organismi nello spazio, grazie alla struttura Expose montata all’esterno della Stazione Spaziale Internazionale. Questa consente l’esposizione di campioni chimici e biologici all’ambiente cosmico e lo studio di come e se i microrganismi sopravvivono a condizioni ambientali extraterrestri.

Tra i microrganismi scelti per queste ricerche vi sono proprio le colture di kombucha, dato che sulla Terra hanno dimostrato di essere in grado di sopravvivere ad ambienti difficili: i microbi che le compongono riescono, infatti, a unirsi per formare un tappeto resistente a temperature o radiazioni avverse.

Ora, gli studi Esa hanno testato la loro capacità di sopravvivenza alle condizioni spaziali: esposti per 18 mesi all’esterno della Iss, gli organismi hanno dimostrato di essere in grado di riparare il loro Dna anche dopo i danni causati dalle radiazioni cosmiche.
Anche la divisione cellulare, ossia il processo con cui le cellule si moltiplicano ma che viene bloccato in caso di danni rilevati al Dna per non replicarli, è ripresa dopo che i danni causati dall’esposizione ai raggi cosmici sono stati riparati.

Un altro esperimento ha rivelato, inoltre, che in colture multispecie gli ammassi di cellule forniscono un microhabitat per le specie più piccole, dimostrando che alcune di queste possono trovare una protezione all’ambiente spaziale essendo ospitate all’interno di gruppi di cellule più grandi in grado, al contrario, di resistere ai raggi cosmici.

Oltre a fornire informazioni fondamentali per evitare e prevenire contaminazioni di future missioni spaziali, queste ricerche mostrano anche come i biofilm batterici ottenuti da questi microbi super resistenti potrebbero essere utilizzati in futuro per schermare organismi viventi durante i viaggi più lunghi nello spazio.

Tutti questi risultati portano, quindi, le colture di kombucha a essere buoni candidati per prossime missioni Artemis che prevedano la coltivazione di microrganismi sulla Luna.

«Spero di vedere i nostri campioni attaccati al Gateway lunare in futuro o forse utilizzati sulla superficie della Luna e oltre. Fino ad allora, continueremo a esplorare le possibilità offerte dalle nostre bioculture», conclude Nicol Caplin.

 

Immagine in evidenza: L’impianto Expose sulla Stazione Spaziale Internazionale che per il progetto Expose-R2 di Esa ospita 46 specie di batteri, funghi e artropodi per 18 mesi all’esterno del laboratorio orbitante. Crediti: Roscosmos