Scrutando la luce di una delle galassie più distanti e antiche dell’Universo, il James Webb ha trovato la prima prova dell’esistenza di una stella supermassiccia, una tra le entità stellari più misteriose del primo universo.

Le stelle supermassicce sono i mostri celesti che hanno dominato l’universo primordiale grazie a una luminosità di milioni di soli. Tanto potenti quanto dalla vita breve, fino a oggi nessuna osservazione era riuscita a scovare le tracce indirette della loro antica esistenza. Eppure, secondo i modelli teorici, la loro presenza all’interno degli ammassi globulari di 13 miliardi di anni fa, i raggruppamenti di stelle più densi e antichi dell’Universo, spiegherebbe i misteri che si celano dietro queste affascinanti strutture. Solo la Via Lattea ne conta circa 180.

Considerati l’anello mancante tra le prime stelle e le prime galassie, gli ammassi globulari possono contenere milioni di stelle in uno spazio relativamente piccolo, tutte nate nello stesso periodo. Tuttavia, la composizione chimica di queste stelle risulta varia come nessun’altra popolazione stellare, rappresentando così uno dei misteri irrisolti dell’astronomia.

Per spiegare questa anomalia, è stata ipotizzata l’azione diretta delle stelle supermassicce, enormi stelle che si nutrono continuamente di materia, inclusi altri astri, per poi espellere molto materiale di scarto nell’ambiente del proto-ammasso: secondo gli astronomi, questa forma di inquinamento sarebbe in grado di alimentare, a sua volta, la nube di gas originaria durante la formazione degli ammassi globulari. La contaminazione chimica delle supermassicce fornirebbe così alle nuove stelle elementi chimici in modo eterogeneo.

Proposto nel 2018 da un team di ricercatori dalle Università di Ginevra, Parigi e Barcellona, questo modello teorico non ha però trovato alcuna prova sperimentale a suo favore, almeno finora.
Una nuova ricerca del team, pubblicata su Astronomy & Astrophisics, fornisce, infatti, le prime evidenze della presenza di stelle supermassicice nei proto-ammassi globulari, nati circa 440 milioni di anni dopo il Big Bang, e della loro azione contaminante.
Scrutando la luce emessa dalla giovane e distante galassia GN z11, situata a circa 13,3 miliardi di anni luce e con un’età di poche decine di milioni di anni, il James Webb ha scovato la prima traccia chimica che proverebbe l’esistenza di una supermassiccia.

Dall’analisi dello spettro luminoso di GN z11 risulta, infatti, che la galassia contiene un’altissima densità di stelle e proporzioni molto elevate di azoto. Due indizi che proverebbero rispettivamente che in GN z11 si stanno formando diversi ammassi globulari e che questi ospitano ancora una stella supermassiccia attiva, la cui massa è stimata dai ricercatori tra le 5.000 e le 10.000 volte quella del Sole.

«La forte presenza di azoto può essere spiegata solo dalla combustione dell’idrogeno a temperature estremamente elevate, che solo il nucleo delle stelle supermassicce può raggiungere», afferma Corinne Charbonnel, primo autore della ricerca.

Questi risultati rafforzano dunque l’ipotesi del team, il cui modello è l’unico attualmente in grado di spiegare le anomalie di abbondanza negli ammassi globulari. Ulteriori evidenze verranno ora ricercate, tramite il potente sguardo all’infrarosso del Webb, in altri ammassi globulari ospitati in galassie lontane.

 

Immagine in evidenza: un’immagine dell’ammasso globulare M13, a 22 000 anni luce dalla Terra, composto da un milione di stelle schiacciate in uno spazio di 150 anni luce. Crediti: Hst / StscI / Nasa / Esa