Una data certa di fine missione e una forte motivazione possono salvaguardare la salute mentale dal prolungato isolamento sociale che gli astronauti vivono durante le missioni nello spazio profondo. Questo è il principale risultato emerso da un recente studio che ha coinvolto il progetto Lunark, la prima simulazione nell’Artico di una missione lunare.

Pubblicata su Acta Astronautica, la ricerca è realizzata da un team di psicologi appartenenti all’Università di Milano-Bicocca, Università di Messina e alla Surrey University in Gran Bretagna.

Il programma Lunark ha lo scopo di testare l’architettura di una capsula ermetica simile a un habitat lunare. I due architetti della stessa struttura hanno vissuto volontariamente per 61 giorni in totale segregazione nel nord della Groenlandia. Un’opportunità per studiare l’impatto psicologico dell’isolamento sociale prolungato in ambienti estremi. Condizione che dovranno affrontare i futuri equipaggi che guideranno le prossime esplorazioni umane nello spazio profondo.

Gli effetti psicologici, tuttavia, rappresentano un fattore critico non solo per l’ottimizzazione della missione: «L’isolamento sociale, se prolungato nel tempo, è uno dei fattori di rischio più importanti per quanto riguarda la mortalità precoce. — afferma Paolo Riva, psicologo sociale dell’Università di Milano Bicocca e autore principale dello studio, intervistato dall’Agenzia Spaziale Italiana — I nostri modelli teorici predicono un’associazione tra esperienze di isolamento prolungato e una serie di stati psicologici negativi quali depressione, aumento di ansia, senso di alienazione».

Gli effetti negativi causati dalla segregazione verrebbero però compensati dalla consapevolezza di una data certa di fine esperienza e da una forte motivazione che si manifestano all’interno di una missione spaziale.
La ricerca ha, tuttavia, registrato due tendenze per nulla scontate: «Il desiderio di contatti sociali cresce in maniera piuttosto lineare nell’esperienza dei due volontari — continua Paolo Riva — e lo stato di rassegnazione, con cui noi sintetizziamo le conseguenze negative più profonde dell’isolamento sociale, manifesta un effetto di carry over, ossia un trascinamento delle conseguenze da un giorno con l’altro».

Se dunque il contesto di una missione spaziale può avere una funzione protettiva, la mancanza di interazioni sociali rimane un fattore da dover pesare in quanto costante minaccia per la salute mentale degli astronauti. Da qui è nata la curiosità dei ricercatori nel volere individuare le condizioni che, all’interno del contesto di una missione e del suo fitto calendario di attività quotidiane, non portano necessariamente a esiti negativi per la salute di chi vive l’isolamento.

«L’esercizio fisico, il tempo libero dedicato ad attività non strettamente legate alla missione e quanto i soggetti in isolamento parlano tra loro, specie se discutono di temi più di natura personale, sono attività associate a una maggior salute mentale», conclude Riva.

Inserito all’interno della branca di studio della space psychology, ramo che indaga le conseguenze dei fattori ambientali sulla psicologia umana nei viaggi spaziali, questa ricerca mostra che l’isolamento in ambiente estremo non conduce necessariamente a uno stato di rassegnazione psicologica, facendo emergere, piuttosto, il ruolo determinante del contesto.

«Lavori come questo saranno in grado di informare la formazione futura e la pianificazione degli orari nelle spedizioni in ambienti estremi e nelle missioni lunari, — ha affermato Konstantin Chterev, della Surrey University e coautore dello studio — è fondamentale bilanciare i compiti critici della missione e il benessere fisico con la protezione del benessere psicologico e la mitigazione degli effetti negativi dell’isolamento a lungo termine».

 

Immagine: la capsula ermetica del progetto Lunark Crediti: Saga Space Architects