Gli otto membri della Corte di Assise di Roma imboccarono rapidamente la porta della camera di consiglio mentre il pubblico in aula urlava di rabbia e sdegno. L’occhiata impaziente che il presidente rivolse ai giudici popolari tradì la sua voglia di liquidare in fretta la faccenda.

«Non voglio influire sul vostro giudizio» esordì, «ma penso che non ci sia molto da discutere.»

I giurati annuirono gravemente, ancora atterriti da quel che era emerso dal dibattimento.

«Voglio essere franco con voi» continuò il presidente, «mi dispiace solo di non poter mandare a morte l’essere ignobile che abbiamo avuto la sventura di avere di fronte per tutto il processo. Vi assicuro che in tutta la mia carriera non ho mai incontrato una maschera tanto crudele. Non ha battuto ciglio di fronte alle accuse che gli venivano mosse, è rimasto impassibile senza offrire un perché a noi che gli chiedevamo conto delle sue azioni. La massima pena che l’ordinamento ci permette di comminare oggi è ben poca cosa, mai riuscirà ad appagare il desiderio di giustizia che, ne sono certo, arde in noi in questo momento.»

Dopo pochi minuti la giuria si ripresentò in aula. Mai sentenza di corte di assise fu emessa tanto velocemente ma nessuno se ne sorprese. Anzi, chi nell’aula continuava a gridare “a morte, a morte” in cuor suo si stupì che non avessero impiegato meno.

«Una pallottola in mezzo alla fronte senza tante storie, ecco quel che ci vorrebbe» sentenziò uno spettatore.
«Quella bestia non ce l’ha una fronte e nemmeno una testa» gli rispose un altro indicando l’essere, una massa informe di tentacoli ed escrescenze gibbose butterate di orifizi, che se ne stava immobile nel banco degli imputati schermato da un campo di forza.

Col fiato sospeso, il pubblico presente in aula, e quello davanti agli schermi di tutto il pianeta, ascoltò la proclamazione dello scontato verdetto.

«In nome del Popolo Italiano» disse il presidente col cipiglio che la gravità del momento imponeva, «la Seconda sezione della Corte di Assise di Roma dichiara Rtyiop Fhirtyw, cittadino del pianeta Lorck, colpevole del reato di strage di cui all’art. 422 c.p. per aver causato la morte per avvelenamento con acido cianidrico di quarantadue persone nello spazioporto di Fiumicino, condannandolo alla pena dell’ergastolo con isolamento perpetuo. Dispone altresì la confisca dell’astronave di sua proprietà a ristoro dei danni patiti dalle parti civili costituite e delle spese di questo processo.»

La massa informe del lorckiano parve tremolare, poi ritornò alla consueta inattività. Era seccato che qualcuno potesse fregiarsi della sua bella nave, non gli pareva giusto. Avrebbe voluto a spiegare alle creature che si agitavano in modo forsennato intorno a lui che non era colpa sua; che, quando quella gente ai controlli di sicurezza nello spazioporto lo aveva scavalcato in fila, aveva manifestato il disappunto espellendo dal suo orifizio di evacuazione una nube di gas, come era uso su Lorck per ammonire i maleducati di desistere da una condotta sconveniente. Avrebbe voluto spiegarlo, ma i terrestri avevano sempre fretta e lui non era ancora riuscito a capire perché.
Un plotone di poliziotti armati fino ai denti avanzò per prenderlo in consegna. Il lorckiano si mosse, estroflettendo gli pseudopodi con esasperante lentezza.

La scorta lo condusse al cospetto del direttore del carcere di massima sicurezza, il “Giovanni Bacchiddu” di Sassari, nel quale, secondo la sentenza, avrebbe dovuto passare il resto della vita in isolamento.

«Stammi a sentire» disse il direttore puntandogli il dito contro, «avrò premura di rendere molto spiacevole il tuo soggiorno qui, E quando creperai, cosa che accadrà prima di quanto tu possa credere, festeggerò con tutti quelli che oggi, come me, avrebbero voluto vederti morto.»

«Mi spetta una chiamata?» chiese il lorckiano con la sua cadenza lenta e gorgogliante, per niente intimorito.
«È nel tuo diritto. Ma non ti ci abituare, è l’ultimo che ti rimane» aggiunse rabbiosamente il direttore, passandogli la cornetta.

«Centralino, voglio parlare col centro astronomico confederale.»

Dopo un po’, dall’apparecchio giunse un «Dica?»

«Per cortesia, vorrei una conferma: sapreste dirmi con precisione qual è il rapporto tra il periodo di rotazione del pianeta Lorck del settore gaviano e quello della Terra?»

«Un attimo, consulto il database» rispose l’altro. «Il rapporto è di uno a 7300» aggiunse.

Il lorckiano ringraziò e chiuse la comunicazione. Si fece condurre docilmente dalle guardie alla propria cella d’isolamento. Per un attimo provò una punta di pietà per quelle creature troppo nervose dalla vita tanto effimera.
Una volta in cella si sistemò sulla brandina. Si rilassò. Chiuse tutti e settantadue gli occhi e si dispose a un breve sonnellino: dopo tutte quelle inutili chiacchiere si sentiva stanco. Per rimetterlo in sesto sarebbe bastata una dozzina di anni di riposo.

Anni terrestri, naturalmente.

 

Michele Piccolino, 46 anni, vive ad Ausonia con la moglie Giovanna e i figli Giuseppe e Giovanni. Avvocato, insegna presso la facoltà di Economia dell’Università di Cassino. Nel 2010 è uscito il suo primo romanzo, La Creatura senza nome. Nel 2013 ha pubblicato l’antologia Il pettine lungo il fiume e altre storie improbabili e, nel 2015, La guida spirituale e altre storie di Cavafratte, editi da Tabula Fati. Ha organizzato nel 2002 e nel 2003 il premio Douglas Adams per racconti di fantascienza umoristica. Ha vinto numerosi premi letterari. Suoi lavori sono stati pubblicati in decine di antologie.