Sono trascorsi 55 anni da quando l’astronauta della Nasa John Glenn partì a bordo della navicella Frienship 7, diventando il primo statunitense a compiere l’orbita terrestre. L’evoluzione del volo spaziale, il progresso tecnologico e scientifico e dei partenariati commerciali pubblici e privati con aziende come SpaceX e Blue Horizons hanno rafforzato gli obiettivi della Nasa e la fiducia nel portare avanti nuove missioni di esplorazione umana. Cresce sempre più il numero di persone pronte ad esplorare lo spazio, e di pari passo l’esigenza di sperimentare gli effetti della microgravità sul corpo umano. Nel nuovo numero della rivista New England Journal of Medicine, sono stati pubblicati i risultati di un recente studio condotto da Donna Roberts, neuro-radiologa alla Medical University of South Carolina sui cambiamenti nella struttura cerebrale degli astronauti durante le missioni lunghe nello spazio. Secondo la Roberts, l’esposizione prolungata in un ambiente spaziale ha effetti permanenti sugli esseri umani che non riusciamo ancora a comprendere. Lo spazio è un ambiente ostile e presenta molte sfide fisiche e psicologiche per gli astronauti. Alcuni di loro, hanno riscontrato una variazione di pressione nel cervello e nel liquido spinale e un’alterazione della vista, dopo una permanenza sulla Stazione Spaziale Internazionale.
Avendo collaborato con la Nasa nel primi anni ’90, la Roberts era già a conoscenza delle sfide che gli astronauti dovevano affrontare durante le missioni di lunga durata. Ed è proprio grazie a lei se la Nasa utilizza la risonanza magnetica per immagini (Rmi) per studiare gli effetti del cervello umano prima e dopo i voli sulla Iss. Dopo aver condotto un test esaminando la plasticità cerebrale di alcuni partecipanti a seguito di una lunga permanenza a letto, la Roberts ha analizzato gli spazi del liquido cerebrospinale nella parte superiore del cervello e i ventricoli situati al centro del cervello, di un gruppo di astronauti prima e dopo la loro permanenza in orbita – 18 di loro per un periodo e 16 di loro per circa tre mesi. I risultati hanno confermato che nello spazio si verificano significativi cambiamenti nella struttura del cervello. In particolare è stato evidenziato un restringimento del solco centrale – questa alterazione riguarda il 94% degli astronauti che hanno partecipato a voli di lunga durata e il 18,8% di quelli che hanno soggiornato per un breve periodo. Le parti più colpite sono i lobi frontali e parietali, che controllano i movimenti e le funzioni esecutive superiori.
Cosa succederà quindi nei futuri viaggi di esplorazione umana su Marte, dove la gravità è circa un terzo di quella terrestre e la permanenza potrà durare dai tre ai sei mesi? Queste sono le questioni che la Roberts vuole affrontare e per questo motivo continuerà a raccogliere più dati possibili sugli astronauti. Finora questo sembrerebbe essere lo studio più completo fra tutti quelli condotti in precedenza. «I cambiamenti che abbiamo visto possono spiegare sintomi insoliti riscontrati al ritorno degli astronauti dalla Stazione spaziale e aiutare a identificare i problemi chiave nella pianificazione dell’esplorazione spaziale di più lunga durata, incluse le missioni su Marte».