👉 Seguici anche sul nostro canale WhatsApp! 🚀

Deorbitare per far disintegrare in atmosfera satelliti in disuso, serbatoi vuoti dei lanciatori e persino intere stazioni spaziali dismesse, è una pratica  utilizzata fin dagli albori dell’esplorazione spaziale da tutte le agenzie spaziali del mondo.
Oggetti che, alla fine della loro vita operativa o funzionalità, vengono volutamente lasciati precipitare nell’atmosfera e i frammenti che restano finiscono per inabissarsi negli oceani nella quasi totalità dei casi.
Non c’è modo di controllarli o pilotarli: da un certo momento in poi la loro caduta viene lasciata totalmente in balìa degli elementi e tutto ciò che possiamo fare è osservare inermi, pronti a dare l’allarme. Questa procedura finora non ha mai provocato danni di qualche tipo, la superficie del nostro pianeta è principalmente ricoperta d’acqua, il 71%, quindi le probabilità che ciò che resta di questi detriti finisca per colpire persone e centri abitati sono vicinissime allo zero.
In questi anni però la situazione sta cambiando notevolmente.

L’aumento costante dell’attività spaziale a cui assisteremo nell’immediato futuro, la sua ricaduta sul trasporto aereo e sulla sicurezza civile, sono fattori che stanno acquisendo sempre più importanza, come trattato in uno studio mirato, appena pubblicato su Nature/Scientific Reports, che mostra con dati e grafici l’aumento esponenziale dei rientri incontrollati di questi ultimi anni e il numero sempre crescente di oggetti lanciati in orbita, soprattutto a seguito della creazione di varie megacostellazioni di satelliti.

Stiamo assistendo infatti a una crescita esponenziale dell’attività spaziale mondiale. Da un quarto di secolo circa ormai, numerose aziende private hanno affiancato le agenzie spaziali di Stato, moltiplicando in modo impressionante il numero di lanci e di velivoli messi in orbita. In questo momento ci sono oltre 2300 rottami di razzi che fluttuano in orbita bassa, sulle nostre teste, e stanno tutti perdendo quota più o meno velocemente. A un certo punto la gravità terrestre li farà precipitare definitivamente in atmosfera e tutto ciò che potremo fare è monitorare al meglio la loro discesa, cercando di capire se, e in che punto, colpiranno la superficie.

I timori principali che scaturiscono dall’aumento di rientri incontrollati riguarda gli effetti sull’aviazione civile. Se la probabilità di danni provocati dai rottami spaziali nelle zone ad alta densità di popolazione è appena dello 0,8%, dove c’è più concentrazione di traffico aereo (come nel nord-ovest degli Stati Uniti, nel nord Europa e nelle grandi città asiatiche sul versante del Pacifico), la percentuale sale fino al 26%, un valore indiscutibilmente preoccupante.
Le implicazioni legate alla sicurezza poi non sono l’unico problema. L’esplosione parziale di ‘Starship 7’ durante il volo sperimentale di qualche giorno fa, ad esempio, ha costretto l’ente che regola il traffico aerospaziale negli Usa ad attivare le procedure di sicurezza, che generano ritardi al traffico aereo. Numerosi aeromobili in volo nelle zone vicine agli impatti, hanno dovuto attendere così a lungo il permesso di atterrare che alla fine sono stati costretti a spostarsi verso un altro aeroporto, perché stavano finendo il carburante. Ritardi e disagi ai passeggeri sono un effetto collaterale minore, ma certamente non trascurabile.

Chiudere completamente il traffico aereo durante un rientro atmosferico di un rottame spaziale è una delle proposte attualmente al vaglio dalle autorità. Anche se oggi può ancora sembrare eccessiva, nei prossimi decenni diverrà inevitabile perché la situazione è sempre più critica.

Nello studio trattato si apprende che la predittività è attualmente poco efficace: l’incertezza è tale che, a soli 60 minuti precedenti l’impatto, l’area prevista per la caduta dei rottami si estende ancora per ben 2000 chilometri quadrati.
Anche se conoscessimo esattamente il punto dove cadono i detriti, prosegue lo studio, non sapremmo comunque il loro comportamento, se restano integri o si spaccano in più parti e, in questo ultimo caso, l’eventuale distribuzione dei frammenti.
Quello che sappiamo per certo, si sottolinea, è la delicatezza del problema perché anche se un impatto non è statisticamente facile che avvenga, anche un minuscolo frammento in caduta può avere effetti tragici, ad esempio se colpisce un aereo in volo con passeggeri a bordo.

In attesa di una regolamentazione aggiornata e comune, le autorità di tutto il mondo possono già oggi decidere di non far volare temporaneamente gli aerei nelle regioni in cui è prevista la caduta di un rottame spaziale. Questo è accaduto ad esempio nel novembre 2022, quando l’enorme booster cinese ‘Lunga Marcia 5B’ ricadde sul pianeta senza alcun controllo: Francia e Spagna chiusero il traffico aereo, perché inizialmente si pensava che il razzo sarebbe caduto in sud Europa (fortunatamente finì nel Pacifico).

Lo Spazio è luogo ultimo di conquista, esplorazione e colonizzazione. L’industria mondiale punta sempre più allo sfruttamento commerciale dell’orbita bassa e la popolazione umana ha sempre più necessità di interconnettività e comunicazione globale.
L’aumento delle attività produttive nello Spazio è già in atto e le previsioni per il prossimo futuro ci dicono che l’incremento sarà enorme, una nuova era industriale a tutti gli effetti. Sarà quindi inevitabile avere delle regole condivise, utili a gestire una mole immensa di traffico che farà continuamente avanti e indietro tra il nostro pianeta e lo Spazio.
E così come avviene sulla Terra, questa futura attività spaziale richiederà un impegno preciso per lo ‘smaltimento dei rifiuti’.

Foto: Un frammento di rottame spaziale, forse proveniente dalla capsula Dragon che ha riportato sulla Terra l’equipaggio ‘Crew-7’, di ritorno dalla Stazione Spaziale Internazionale.
Crediti: Future/Brett Tingley