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Era il febbraio 2023 quando venne pubblicata su Nature una scoperta del James Webb potenzialmente rivoluzionaria: il suo sguardo a infrarossi aveva infatti svelato nel primo universo sei potenziali galassie più massicce di quanto ogni modello cosmologico prevedesse.

Queste strutture, alcune mature come la Via Lattea seppure osservate solo 500-700 milioni di anni dopo il Big Bang, vennero chiamate ‘universe breaker‘, proprio a sottolineare la potenziale scossa rivoluzionaria che la loro scoperta avrebbe potuto imprimere sulla nostra visione del cosmo.
Il modello standard con cui spieghiamo l’evoluzione dell’universo non prevede, infatti, strutture galattiche così massicce già all’alba cosmica.

Ora, una nuova ricerca pubblicata su Astronomical Journal, guidata dalla University of Texas di Austin, svela che queste prime galassie non siano così cresciute come gli astronomi avevano inizialmente pensato.
Lo studio, a cui hanno partecipato anche l’Università di Padova e Inaf – Osservatorio Astronomico di Padova, suggerisce che in alcune delle galassie primordiali osservate dal Webb possano essere presenti buchi neri che, inghiottendo il gas circostante, le fanno apparire molto più massicce di quanto non siano in realtà.
L’attrito del gas in rapido movimento emette, infatti, calore e luce, rendendo le galassie molto più luminose di quanto risulterebbero se la luce provenisse solo dalle loro stelle.

A supporto di tale ipotesi, i ricercatori della survey Ceers (Cosmic Evolution Early Release Science) del Webb hanno trovato prove di gas idrogeno in rapido movimento, una firma dei dischi di accrescimento dei buchi neri.

Gli astrofisici sono così ora al sicuro da una ipotetica crisi della teoria cosmologica per mano del Webb, dato che, escluse le sei galassie che con tale inganno appaiono inaspettatamente mature, tutte le galassie primordiali rimanenti osservate dal telescopio Nasa, Esa e Csa non sono così massicce da non rientrare nelle previsioni del modello standard.

Seppur meno spinoso, rimane comunque un punto in contrasto con la teoria cosmologica: le osservazioni del Webb hanno, infatti, rivelato nel primo universo un numero di galassie massicce che risulta essere più o meno il doppio rispetto a quanto previsto dal modello standard. Una difformità spiegabile dall’ipotesi secondo cui le stelle si sarebbero formate più rapidamente nell’universo primordiale rispetto a oggi.

«Forse nell’universo primordiale le galassie erano più brave a trasformare il gas in stelle», ha affermato Katherine Chworowsky, prima autrice dell’articolo.

Immagine in evidenza: una piccola porzione del campo osservato dalla NirCam (Near-Infrared Camera) del James Webb per l’indagine Cosmic Evolution Early Release Science (Ceers). Il campo è pieno di galassie e la luce di alcune di esse ha viaggiato per oltre 13 miliardi di anni per raggiungere il telescopio – Crediti: Nasa, Esa, Csa, Steve Finkelstein (UT Austin)