Tundra, praterie e varie categorie di foreste: sono questi alcuni degli ecosistemi presi in esame in un nuovo studio di Nature Geoscience, mirato a indagare l’influenza del cambiamento climatico sull’attività della vegetazione. La ricerca (articolo: “Shifts in vegetation activity of terrestrial ecosystems attributable to climate trends”) si è basata su modelli informatici e dati satellitari ed è stata svolta da un gruppo di lavoro del Dipartimento di Ecologia Vegetale dell’Università di Bayreuth (Germania).
L’indagine copre un arco temporale di circa 40 anni e per avere un quadro esaustivo di come la vegetazione abbia reagito ai mutamenti del clima è stato fondamentale l’apporto dei dati di programmi satellitari di lunga durata; in particolare, per il periodo 1981-2015, gli studiosi hanno utilizzato i dataset del radiometro Avhrr (Advanced very-high-resolution radiometer), installato sia sui satelliti Poes della Noaa (National Oceanic and Atmospheric Administration), sia su quelli MetOp di Esa ed Eumetsat. Per il periodo 2000-2019, invece, sono state utilizzate le informazioni raccolte dallo spettro-radiometro Modis (Moderate Resolution Imaging Spectroradiometer) del satellite Terra della Nasa.
Lo studio ha preso in considerazione 100 siti, distribuiti su tutti i continenti. I luoghi osservati dai satelliti sono rappresentativi dei principali ecosistemi terrestri, quali foreste (sempreverdi tropicali, boreali e temperate), savane, macchie, praterie, tundra e ambienti mediterranei. Dall’analisi dei dati satellitari, secondo i ricercatori, emerge che le variazioni nella vegetazione possono essere spiegate – nella maggior parte dei casi – in base ai cambiamenti nella temperatura dell’aria e nell’umidità del suolo; invece, è stato notato che i mutamenti relativi all’irraggiamento solare e ai livelli di anidride carbonica nell’atmosfera svolgono un ruolo di rilievo solo di rado. Questi fattori climatici, identificati anche grazie all’utilizzo dei modelli, non si manifestano in tutti gli ambienti esaminati: ad esempio, gli ecosistemi di zone calde e secche (savane e alcuni tipi di prateria) hanno reagito soprattutto ai cambiamenti nell’umidità del suolo, mentre quelli di regioni più fredde (tundra e foreste boreali) sono più sensibili ai cambiamenti di temperatura.
In alcuni ambienti, inoltre, i periodi in cui l’attività della vegetazione è cresciuta sono stati seguiti da fasi di decrescita; queste inversioni di tendenza – spiegano gli autori del saggio – aprono degli interrogativi sulla capacità degli ecosistemi di continuare a fornire un contributo essenziale alla cattura del carbonio atmosferico. Ma come si presentano tali inversioni? Nel caso dell’aumento della temperatura dell’aria e del suolo, esse si sono manifestate attraverso un incremento della copertura verde, visibile anche dallo spazio (greening); però, se la temperatura raggiunge livelli troppo elevati, l’attività vegetale diminuisce per l’aridità del suolo e le aree verdi regrediscono diventando marroni (browning).
«Se queste inversioni di tendenza fossero confermate da ulteriori studi, sarebbe davvero preoccupante – ha commentato Steven Higgins, docente presso l’Università di Bayreuth e primo autore dello studio – perché, per decenni, gli ecosistemi terrestri hanno assorbito quote significative di emissioni di carbonio antropogenico ‘inverdendosi’. Fino ad ora, questo ‘servizio’ di cattura del carbonio svolto dalla vegetazione ci ha salvato da cambiamenti climatici più drammatici», conclude l’esperto.
In alto: foresta boreale presso Fairbanks, Alaska (Crediti: Kate Ramsayer/Nasa)