È un potenziale indicatore dell’esistenza di segni di vita e la sua biofirma può essere individuata anche dal telescopio Webb: si tratta del metano, la cui presenza nell’atmosfera degli esopianeti rocciosi potrebbe essere collegata ad attività biologica. Questo gas è al centro di uno studio appena pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences. L’indagine, supportata dalla Nasa, è stata coordinata dall’Università della California-Santa Cruz e ha visto il coinvolgimento dell’Università di Washington.

Gli autori del saggio hanno voluto realizzare qualcosa di inedito nell’ambito di questo tema su cui già esistono altri lavori: il nuovo studio, infatti, illustra un quadro completo delle condizioni che un pianeta extrasolare dovrebbe avere per poter affermare che la presenza del gas sia effettivamente collegabile a delle forme di vita. In pratica, gli astronomi hanno voluto realizzare una guida alle osservazioni da svolgere su un determinato corpo celeste e alla loro interpretazione, per evitare dei casi che si potrebbero definire ‘falsi positivi’.

La ricerca, infatti, esamina una serie di fonti di metano non biologiche e ne valuta il potenziale perché riescano a mantenere un’atmosfera ricca di questo gas. Le sorgenti prese in considerazione, tra l’altro, includono: vulcani, reazioni chimiche che avvengono in particolari ambienti (dorsali oceaniche, condotti idrotermali e zone di subduzione tettonica) e impatti di comete o asteroidi. Secondo gli studiosi, l’ipotesi del metano come biofirma deriva dalla sua instabilità nell’atmosfera: dato che viene distrutto dalle reazioni fotochimiche, il gas deve essere costantemente reintegrato per mantenere un alto livello.

Se viene scoperto un vasto ammontare di metano su un esopianeta – spiegano gli studiosi – è necessaria una sorgente significativa per giustificarlo: è noto che sulla Terra l’attività biologica produce grandi quantità di metano e che una situazione del genere è probabilmente avvenuta anche nel passato del nostro pianeta, visto che è connessa al metabolismo microbico. Le fonti non biologiche, tuttavia, non sarebbero in grado di produrre così tanto metano senza generare anche indizi osservabili sulle sue origini. Il degassamento dai vulcani, ad esempio, aggiungerebbe metano e monossido di carbonio all’atmosfera, mentre l’attività biologica tende a consumare prontamente monossido di carbonio. I ricercatori hanno scoperto che i processi non biologici non possono produrre facilmente atmosfere planetarie abitabili, ricche sia di metano che di anidride carbonica e con poco – se non addirittura inesistente – monossido di carbonio.

Lo studio sottolinea la necessità di considerare l’intero contesto planetario nella valutazione delle potenziali firme biologiche. I ricercatori hanno concluso che, per un pianeta roccioso in orbita attorno a una stella simile al Sole, è più probabile che il metano atmosferico vada considerato una forte indicazione di vita se l’atmosfera include anche anidride carbonica, se il metano è più abbondante del monossido di carbonio e se possono essere escluse composizioni planetarie estremamente ricche di acqua.

«Una sola molecola non ti darà la risposta: devi prendere in considerazione il contesto completo del pianeta – ha dichiarato Maggie Thompson, prima autrice dello studio – Il metano è un pezzo del puzzle, ma per determinare se c’è vita su un pianeta devi considerare la sua geochimica, il modo in cui interagisce con la sua stella e i molti processi che possono influenzare l’atmosfera di un pianeta su scale temporali geologiche».

 

In alto: le fonti di metano non biologiche (Crediti: © 2022 Elena Hartley)