Astronomia e anidride carbonica: un binomio formato da soggetti che sembrano avere poco in comune, ma che in realtà sono connessi e possono avere implicazioni sul clima. Infatti, telescopi e osservatori, sia di terra che spaziali, fanno sentire la loro influenza sull’ambiente, lasciando dietro di sé la cosiddetta ‘impronta di carbonio’ (carbon footprint): ad affermarlo è un nuovo studio di Nature Astronomy (articolo: “Estimate of the carbon footprint of astronomical research infrastructures”), che per la prima volta ha cercato di stimare quantitativamente l’impronta associata a queste complesse infrastrutture.
L’indagine è stata condotta da un team di scienziati dell’Istituto di Ricerca per l’Astrofisica e la Planetologia dell’Università di Tolosa; il gruppo, di cui fa parte l’italiano Luigi Tibaldo, ha utilizzato il metodo dell’analisi economica input-output (Eio – Economic input-output) con cui ha delineato una prima idea dell’ammontare delle emissioni. Questo metodo presuppone che i flussi di gas serra delle infrastrutture di ricerca siano proporzionali ai loro costi o al loro peso.
Nello specifico, l’impronta di carbonio indica la quantità di gas serra che si crea durante la realizzazione di un prodotto o di un servizio. Questa traccia riguarda appunto anche i grandi telescopi e osservatori – come il James Webb oppure lo Skao in fase di costruzione in Australia e in Sudafrica, per citare i più recenti – e si presenta come una realtà che si estende per lunghi periodi di tempo: gli studiosi, infatti, hanno considerato non solo l’attività operativa pluriennale di queste strutture, ma anche le emissioni generate durante la costruzione e, nel caso dei telescopi spaziali, durante il lancio.
I risultati dell’indagine mostrano che, globalmente, osservatori e telescopi generano nel corso della loro vita operativa circa 22 milioni di tonnellate di anidride carbonica; la stima delle emissioni in ogni anno, invece, è pari a 1,2 milioni di tonnellate. È stato calcolato, inoltre, che il Webb e lo Skao potranno generare almeno 330mila tonnellate di Co2 durante la loro intera operatività: un dato che, secondo gli autori, rende la loro impronta di carbonio più estesa rispetto a quelle delle altre strutture considerate nel saggio.
Tuttavia, il metodo di analisi utilizzato – spiegano i ricercatori – presenta ancora dei margini di incertezza e andrebbe integrato con altri strumenti, come la valutazione del ciclo di vita (life-cycle assessment) che però richiederebbe dati dettagliati su ciascuna infrastruttura; queste informazioni non sono facilmente disponibili per ragioni di riservatezza industriale.
Indipendentemente dall’accuratezza della stima, gli autori del saggio sostengono che la comunità astronomica dovrebbe impegnarsi per ridimensionare l’impronta di carbonio delle strutture di ricerca se vuole rispettare gli obiettivi di riduzione delle emissioni globali. Gli studiosi ritengono quindi che sarebbe opportuno realizzare nuovi progetti con tempistiche più diluite nel tempo e soprattutto che si potrebbero sfruttare meglio i dati raccolti dagli osservatori/telescopi già esistenti. Spesso questi dataset, anche a distanza di anni, si sono rivelati una miniera preziosa di informazioni.
Infine, un fattore che andrà tenuto presente per future ricerche – e che non è stato ancora analizzato per questo saggio – riguarda l’utilizzo di energie rinnovabili; infatti, vi sono numerose strutture – come il telescopio Vlt dell’Eso in Cile – che hanno attuato strategie green per contenere i consumi energetici e far pesare di meno la loro impronta di carbonio.
In alto: l’osservatorio Skao (Crediti: Skao)