L’asteroide Ryugu, scoperto negli anni novanta, aveva da subito suscitato l’interesse degli astronomi e, per svelarne ogni mistero, l’Agenzia spaziale giapponese aveva inviato una sonda per studiarlo e raccoglierne campioni: Hayabusa2. La sonda è attualmente impegnata nel suo viaggio di ritorno, carica dei campioni raccolti dalla superficie dell’asteroide. Nel frattempo un team di ricercatori dell’Università di Tokyo si sta occupando di analizzare i dati raccolti da Hayabusa2 per far luce sulla composizione e sulla storia dell’asteroide.
Le dimensioni attuali di Ryugu rendono poco probabile l’ipotesi che sia sopravvissuto intatto a 4,6 miliardi di anni di storia del Sistema solare, ma è più verosimile che abbia adottato questa forma tra i 10 e i 20 milioni di anni fa. I ricercatori ritengono che l’asteroide sia precedentemente stato parte di un corpo celeste più grande e solido e la sua forma attuale dipenda da collisioni con altri corpi. «Ciò si basa sulle osservazioni di Hayabusa2 che mostrano che Ryugu ha una composizione frammentata e porosa. Formatosi probabilmente dal riaccumulo di detriti di collisione» ha spiegato Seiji Sugita del Dipartimento di Scienze della Terra e dei Pianeti dell’Università di Tokyo.
Il team è riuscito a determinare che sulla superficie dell’asteroide sono presenti due tipi di roccia. Per la maggior si tratta di roccia di tipo C, o cabonioso, composta principalmente da carbonio e acqua, ma sono anche presenti molte rocce di tipo S, o silicee, rocce ricche di silicati.
«Abbiamo utilizzato la telecamera di navigazione ottica su Hayabusa2 per osservare la superficie di Ryugu in diverse lunghezze d’onda della luce, ed è così che abbiamo scoperto la variazione nei tipi di roccia. Tra i massi luminosi, i tipi C e S hanno diverse proprietà riflettenti», ha spiegato il ricercatore Eri Tatsumi.
Le osservazioni fanno quindi pensare che Ryugu sia il risultato di una collisione tra un piccolo asteroide di tipo S e uno grande di tipo C – se la natura dello scontro fosse stata diversa anche il rapporto fra i materiali presenti sulla sua superficie sarebbe stato differente. Lo studio, pubblicato oggi su Nature Astronomy, vede anche un importante contributo degli astrofisici italiani dell’Inaf.
Non resta che aspettare il ritorno di Hayabusa2, previsto per la fine del 2020, per analizzare i campioni e confermare questa ipotesi.