Un team di ricerca guidato dal Kavli institute for the physics and mathematics of the Universe dell’Università di Tokyo ha pubblicato oggi su The Astrophysical Journal una rara scoperta:  tre coppie di galassie che si fondono, ciascuna contente un buco nero supermassiccio che si nutre così rapidamente e di così tanto materiale da creare un oggetto noto come quasar.

La scoperta è stata fatta grazie all’utilizzo del Subaru Telescope, del W. M. Keck observatory e del Gemini Observatory. I ricercatori stavano esaminando i circa 34 mila quasar conosciuti dello Sloan Digital Sky Survey, ma non si aspettavano certo di individuare casi con al centro due sorgenti ottiche.

I quasar sono fra gli oggetti più luminosi ed energetici dell’universo e sono alimentati da buchi neri supermassicci. Osservarli è molto difficile, proprio per la loro luminosità. Inoltre, è una sfida poter immortalare un’area di cielo sufficientemente grande da riuscire catturare questi rari eventi.

«Nonostante la loro rarità, rappresentano una tappa importante nell’evoluzione delle galassie, dove il gigante centrale viene risvegliato, guadagnando massa e potenzialmente influenzando la crescita della sua galassia ospite», ha detto Shenli Tang, co-autore dello studio.

Il team è riuscito a identificare ben 421 casi promettenti, e la loro conferma ha richiesto un’analisi dettagliata della luce. Utilizzando Lris (spettrometro di imaging a bassa risoluzione) del Keck Observatory e Near-infrared integral field spectrometer del Gemini Observatory,  i ricercatori sono riusciti a identificare tre doppi quasar. In ogni coppia è stato possibile individuare il gas che si muoveva a migliaia di chilometri di velocità sotto l’influenza del buco nero supermassiccio. 

Questa scoperta dimostra che combinare tecniche di imaging ad ampio raggio con osservazioni spettroscopiche ad alta risoluzione può essere la chiave per comprendere meglio la crescita delle galassie e dei loro buchi neri supermassicci.

Immagine in evidenza: Uno dei tre doppi quasar scoperti. Silverman et al.