L’India punta alla Luna ma la strada sembra più tortuosa del previsto. Lo dimostra il tentativo di atterraggio non riuscito del lander Vikram della missione Chandrayaam-2. Lo scorso 6 settembre, dopo essersi separato dalla sonda madre, Vikram ha iniziato la sua discesa sul suolo lunare ma a pochi secondi dal touchdown le comunicazioni con il centro di controllo di Bengaluru sono andate perse.
L’agenzia spaziale indiana (Isro) ha comunicato ieri con un tweet che il lander è stato ritrovato, localizzato sulla superficie della Luna grazie all’orbiter della missione, che ha rilasciato un’immagine termica attualmente in fase di analisi per verificare che si tratti realmente del veicolo. Isro ha inoltre comunicato che, nelle prossime due settimane, tenterà di ripristinare i contatti con Vikram, per valutare anche le condizioni del rover Pragyan che avrebbe dovuto essere rilasciato subito dopo l’allunaggio.
Così, l’India, che puntava a diventare la quarta nazione dopo Russia, Stati Uniti e Cina a inviare una navicella sul nostro satellite, sembra seguire le ‘orme’ sfortunate di Israele, visto il fallimento della missione Beresheet.
Ma cosa è successo e perché è così difficile atterrare sul suolo lunare? Lo abbiamo domandato a Marcello Spagnulo, ingegnere aerospaziale e autore di diversi libri sul tema, tra cui l’ultimo – “Geopolitica dell’esplorazione spaziale. La sfida di Icaro nel terzo millennio”- , pubblicato lo scorso giugno.
«Far atterrare una sonda sulla superficie lunare è più complesso di quanto possa apparire. Solo gli Usa, la Russia e la Cina ci sono riusciti. Poiché sulla Luna non c’è atmosfera non è possibile usare il “freno” atmosferico per rallentare la discesa di un lander, come avviene per esempio su Marte. In teoria, sulla Luna si potrebbe orbitare anche a cento metri dal suolo – cosa che non si può fare sul pianeta rosso o sulla Terra – a patto però di mantenere una velocità enorme. Quindi, per allunare occorre diminuire l’altezza dell’orbita del lander fino a un valore limite dopo il quale attuare una discesa controllata da retrorazzi e da motori di assetto. Ciò implica un’elaborazione serrata tra la telemetria rilevata con i radar di bordo e i comandi di attivazione dei propulsori che mantengono l’assetto, la velocità orbitale e l’altezza dalla superficie», spiega Spagnulo.
«La procedura automatica che elabora in tempo reale la spinta e la direzione dei motori del lander per mantenere l’assetto giroscopico e ridurre sia la velocità che l’altezza, richiede un sistema microelettronico e propulsivo altamente performante, e quindi intrinsecamente fault-sensitive. Considerando che russi e americani persero numerose sonde negli anni ’60 prima di riuscire a allunare, si comprende perché non sia proprio una sorpresa un fallimento al primo tentativo, come quello capitato a Chandrayaan-2».
Dunque, nulla è ancora perso? Staremo a vedere nelle prossime settimane. Per ora, la missione Chandrayaan 2 potrà contare soltanto sull’orbiter, che esaminerà dall’alto il suolo lunare per un anno, garantendo il raggiungimento di almeno una parte degli obiettivi scientifici previsti.