Sono apparse sulla scena 13,5 miliardi di anni fa e, secondo gli scienziati, dovevano essere molto diverse dalle loro discendenti che osserviamo oggi: sono le prime stelle formatesi nell’Universo, protagoniste di uno studio appena pubblicato su The Astrophysical Journal (articolo: “Evidence of first stars-enriched gas in high-redshift absorbers”).

La ricerca, basata sui dati del telescopio Vlt dell’Eso, è stata condotta da un gruppo di lavoro che annovera numerosi ricercatori italiani, operanti in vari enti e atenei (Università di Firenze, Inaf-Istituto Nazionale di Astrofisica, Scuola Normale di Pisa, Ifpu-Istituto di Fisica Fondamentale dell’Universo e Università di Milano-Bicocca); il primo autore è Andrea Saccardi, attualmente dottorando in forze all’Osservatorio di Parigi, che ha guidato lo studio durante la sua tesi all’Università di Firenze.

Grazie al Vlt, è stata individuata – per la prima volta – la ‘firma’ lasciata da queste antiche stelle in nubi di gas distanti. Tali astri avevano una composizione chimica piuttosto semplice e una massa pari anche a centinaia di volte quella del Sole, ma la loro esistenza è stata breve. Infatti, queste stelle primordiali, che erano costituite essenzialmente da idrogeno ed elio, sono giunte presto al ‘capolinea’, esplodendo come supernove; questo loro finale drammatico ha permesso, però, l’arricchimento del gas circostante con elementi chimici più pesanti. Gli astri delle generazioni successive, nati da questo gas addizionato, hanno diffuso a loro volta sostanze ancor più pesanti quando sono arrivati al finale.

Gli astrofisici, per poter avere un’idea di come fossero le prime stelle, hanno dovuto analizzare appunto gli elementi chimici sparpagliati nello spazio dopo il ‘botto’ finale: le tracce sono state trovate in tre nubi di gas molto distanti, osservate in un’epoca in cui l’Universo aveva appena il 10-15% della sua età attuale. Le nubi in questione presentano un profilo chimico compatibile con gli elementi emessi dalle antiche supernove.

La massa delle stelle e il livello di energia delle loro esplosioni hanno giocato un ruolo fondamentale nella diffusione degli elementi, tra cui figurano il carbonio, l’ossigeno e il magnesio. Alcune esplosioni, tuttavia, non sono state abbastanza energiche e quindi non hanno permesso l’espulsione di elementi più pesanti, come il ferro che si trova solo nel nucleo stellare.

Il team, per cercare i segni di queste supernove a bassa energia, è andato a caccia di nubi distanti con una composizione chimica specifica: poco ferro, ma abbondanza di altri elementi come il carbonio. Le tre nubi sopra menzionate rispondono appunto a questo profilo chimico; questa particolare composizione è stata osservata anche in numerose stelle antiche della Via Lattea, ritenute di seconda generazione rispetto a quelle primordiali.

Secondo gli autori dello studio, i risultati ottenuti schiudono nuove prospettive di ricerca per i telescopi e gli strumenti di prossima generazione, come l’imminente Elt dell’Eso e il suo spettrografo ad alta dispersione Andes.

In alto: elaborazione artistica degli elementi chimici in una nube di gas (Crediti: Eso/L. Calçada, M. Kornmesser)