Presto torneremo sulla Luna. La missione Artemis 3, prevista nel 2026, riporterà dopo oltre 50 anni un equipaggio sul suolo lunare, la prima esplorazione umana destinata al Polo Sud del nostro satellite. Con le successive missioni lunari, l’obiettivo di diverse agenzie spaziali sarà quello di stabilire basi permanenti sulla superficie della Luna, come l’Artemis Base Camp di Nasa o il Moon Village di Esa, che potranno permettere una presenza umana di lungo periodo. Si aprirà così una nuova era per la scoperta della Luna che potrà essere inaugurata solo dopo aver dimostrato la nostra capacità di fornire in loco le risorse vitali per gli astronauti, quindi ossigeno e acqua, e quelle necessarie a sostegno delle basi lunari.Stiamo parlando dell’in situ resource utilization (Isru), ossia produrre questi beni fondamentali sfruttando le materie prime disponibili sulla Luna svincolandosi così da costosi e complicati rifornimenti dalla Terra.
«Le risorse è necessario prodursele in loco perché, pur avendo la Luna una gravità che è un sesto di quella terrestre, per arrivare con un chilo di qualunque cosa sulla superficie lunare bisogna pensare di lanciare una quantità di massa – quindi mettere sul razzo che parte – una quantità che è almeno 4 volte quella che si vuole lasciare sulla Luna, solo per poter arrivare alla Luna, frenare, rimanere catturati dalla gravità lunare e scendere sulla Luna in maniera soffice, quindi senza schiantarsi. Quindi tutto questo porta a delle masse improponibili. – afferma Michèle Lavagna, Professore Ordinario di Meccanica del Volo presso il Politecnico di Milano – Dipartimento di Scienze e Tecnologie Aerospaziali – Anche solo per le risorse primarie come possono essere le risorse energetiche, le risorse ovviamente di ossigeno e acqua se siamo in presenza umana nel momento in cui si prevede una permanenza di settimane e mesi, si deve cercare di essere autosufficienti in loco e di avere delle infrastrutture che siano anche resistenti agli agenti esterni, in questo caso l’ambiente critico spaziale di superficie, per lunghi periodi. Si apre quindi l’immenso campo dello sviluppo tecnologico in situ».
Protagonista indiscusso per ottenere in loco risorse fondamentali sarà la regolite lunare, ossia lo strato di polvere grigia che ricopre la Luna e su cui Neil Armstrong lasciò l’impronta dello storico ‘grande passo per l’umanità’. Accumulatasi a seguito dei numerosi impatti da meteoriti che hanno colpito la Luna, questa sabbia contiene minerali che si trovano anche sulla Terra, ma soprattutto è costituita per circa il 40% da ossigeno, presente nella regolite in forma solida.
«Se guardiamo la Luna da Terra sembra abbastanza uniforme, in realtà anche lei ha le sue regioni minerarie piuttosto che geologiche. Vero è che c’è un elemento, che è l’ossigeno, che è praticamente presente ovunque sulla superficie lunare perché si trova in alcuni componenti chimici chiamati ossidi – che sono compositi metallo-ossigeno -che a loro volta si aggregano nei minerali piuttosto che, a loro volta, nelle rocce che noi conosciamo anche sulla superficie terrestre, quindi in forma solida. Per cui va estratto con dei processi chimici adeguati, ma l’ossigeno è praticamente dappertutto sulla superficie lunare. Ce n’è abbondanza, verrebbe quasi da dire, all’infinito, sapendolo estrarre», afferma Lavagna.
Questa preziosa dote porterà la regolite lunare a essere il primo vero bacino da cui le future missioni di lungo periodo probabilmente estrarranno ossigeno e acqua; questo nonostante la possibile presenza di acqua ghiacciata nel sottosuolo del Polo Sud lunare, regione dove sono previste le prime basi permanenti. L’estrazione di elementi dal sottosuolo lunare è, infatti, una sfida tecnologica molto ardua date le condizioni completamente differenti da quelli terrestri.
«La luna non ha atmosfera, quindi appena una sostanza che è in forma ghiacciata nel sottosuolo viene a contatto con la superficie non ha più la pressione a cui è sottoposta quando è nel sottosuolo e quindi facilmente, come ad esempio l’eventuale acqua ghiacciata, sublima, cioè passa allo stato gassoso immediatamente, quindi diventa difficile anche raccoglierla. Quindi può essere semplice perché ho già l’elemento finale, l’acqua disponibile, diventa complicato tecnologicamente estrarlo senza perderlo, perché in un contesto di vuoto devo avere una tecnologia che sia in grado di raccogliere le singole particelle di gas che si vengono a creare immediatamente dal solido appena non ho più la pressione del sottosuolo», afferma Lavagna.
L’ostacolo potrebbe essere tuttavia aggirato cercando di estrarre l’acqua dalla regolite lunare presente in superficie. La dimostrazione che ciò sia possibile è arrivata nel 2021 da alcuni esperimenti condotti dal Politecnico di Milano in collaborazione con Ohb Italia. Realizzati nell’ambito della missione dimostrativa Isru di Esa e con l’importante contributo dell’Agenzia Spaziale Italiana, i test sono stati effettuati nei laboratori del Politecnico di Milano sottoponendo una sabbia che simula la regolite lunare a un particolare processo chimico-fisico a più fasi.
«Si è andati a sfruttare un processo che viene utilizzato nella chimica industriale fondamentalmente per l’estrazione del silicio. Il cuore della faccenda sta nella temperatura da una parte e nella miscela di gas con cui si investe la regolite. Il fatto di stare a temperature relativamente alte innesca la capacità dell’ossigeno – che è attaccato ai metalli, nei minerali che ci sono nella regolite – di allentare il suo legame con questi metalli e di associarsi a parte delle sostanze gassose che vengono inserite nel reattore. In questo modo qualcosa che era intrappolato nel solido sotto forma solida si trasforma in particelle gassose che posso trasportare via. E quindi c’è un secondo stadio, che è una semplice marmitta catalitica classica, per cui in questa altra reazione termochimica l’ossigeno si stacca dal carbonio e passa a essere trasportato dall’idrogeno che è acqua, perché H2O non è altro che acqua. Quindi all’uscita di questo secondo reattore ci si trova con un vapore, quindi un gas, che però contiene l’ossigeno in forma d’acqua, il carbonio che ritorna a essere metano e parte dell’idrogeno. Quindi l’ultimissimo compito da fare è tirar fuori l’acqua da questo vapore. E questo viene fatto anche qui con un processo noto di distillazione.
La percentuale di ossigeno presente in una massa di regolite è attorno al 40%, quindi intorno alla metà, e la resa del processo è intorno al 25% dell’ossigeno presente. e la resa del processo è intorno al 25% dell’ossigeno presente», afferma Lavagna.
La verifica positiva dell’impianto effettuata dal gruppo Astra guidato da Michéle Lavagna ha aperto così la strada al progetto Oracle. Nato dall’accordo tra Agenzia Spaziale Italiana e Politecnico di Milano, esso mira a sviluppare un secondo impianto dimostrativo dalle dimensioni ridotte con il fine di trasportarlo e testarlo sulla Luna entro la fine di questo decennio.
«Il progetto si chiama Oracle ed è sicuramente una grande soddisfazione e va un grande ringraziamento ad ASI per aver investito e creduto in quanto il gruppo ha sviluppato finora, perché consente davvero di fare un salto tecnologico importante. Lo scopo di questo studio è di occuparsi, lato politecnico di Milano, delle prime fasi di un ciclo di vita di un equipaggiamento che volerà; quindi noi al momento arriveremo fino alla chiusura di quella che in gergo tecnico si chiama fase B1, cioè il consolidamento della progettazione e dei requisiti necessari per la realizzazione di uno strumento scientifico di test che riproduca tutta questa catena che vi ho raccontato – i due reattori, il condensatore, il sistema di stivaggio dei gas – ma in formato sufficientemente piccolo; perché qui lo scopo non è la quantità che viene prodotta, ma la dimostrazione della fattibilità e dell’efficacia di questo processo con del terreno lunare vero, in una condizione ambientale termica vera lunare, sfruttando l’imbarco su uno dei lander commerciali o, eventualmente, opportunità anche lato Artemis. Quindi, in ogni caso sfruttare, il trasporto offerto da partner esterni per arrivare alla superficie».
Gli ostacoli che l’impianto dimostrativo di Oracle dovrà superare in ambiente lunare vedono ancora una volta protagonista la mancanza di un’atmosfera, ma anche la particolare natura della regolite lunare stessa.
«Sulla Luna siamo nel vuoto e quindi l’impianto deve essere a tenuta perfetta, quindi non ci devono essere punti in cui il gas può riuscire, altrimenti mando in crisi tutto il processo. A questo si sposa il secondo aspetto che è la regolite stessa, la regolite è un aggregato che è molto fine, aderisce elettrostaticamente parecchio alle superfici, è molto abrasivo perché ha un alto contenuto di silicio, cioè di quarzo, e quindi è tagliente, diciamo. Quindi è tutto quello che si può pensare di peggio per dover interagire con un’impiantistica che ha bisogno di essere pulita dove ci sono le superfici che devono andare a tenuta, ha bisogno di non ingripparsi per la presenza di granelli nelle parti mobili».
La validazione in ambiente lunare dell’impianto sarà quindi un passo fondamentale per garantire l’autosufficienza degli esseri umani che si stabiliranno in futuro sulla Luna, e in seguito su Marte, dimostrando allo stesso tempo il ruolo di rilievo che l’Italia ricopre nella nuova era dell’esplorazione umana dello spazio.