Cancella le stelle, alterando la visione notturna del cielo e creando quindi notevoli problemi a chi – astronomi, ma anche astrofili – punta gli strumenti di osservazione verso la volta celeste: si tratta dell’inquinamento luminoso, fenomeno dovuto alle fonti luminose artificiali connesse alle attività umane e alla luce solare riflessa dai satelliti e dai detriti spaziali.
La questione è dibattuta da lungo tempo e negli ultimi anni è salita spesso alla ribalta per l’aumento del numero di satelliti in orbita (come quelli della costellazione Starlink di SpaceX) che hanno aggravato il problema. L’inquinamento luminoso quindi condiziona pesantemente le attività scientifiche, la produttività e la vita operativa degli osservatori astronomici, la maggior parte dei quali si trova oltre la soglia di brillanza tollerabile.
Questo tema è al centro di uno studio appena pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society (articolo: “Light pollution indicators for all the major astronomical observatories”, disponibile a questo link); l’indagine, il cui primo autore è Fabio Falchi (Università di Santiago di Compostela e Istituto di Scienza e Tecnologia dell’Inquinamento Luminoso), è stata condotta da un gruppo di lavoro internazionale di ricercatori dall’Italia, dal Cile e dalla Spagna.
Il team ha studiato e messo a confronto il livello dell’inquinamento luminoso dei principali osservatori astronomici, utilizzando un modello – sviluppato da Pierantonio Cinzano (Istituto di Scienza e Tecnologia dell’Inquinamento Luminoso) – relativo alla propagazione della luce nell’atmosfera della Terra applicato a dati satellitari notturni. Il tradizionale indicatore di questo insidioso fenomeno è la brillanza allo zenit, punto in cui il cielo notturno è generalmente meno inquinato; per questo studio sono stati impiegati anche altri indicatori che hanno consentito di tracciare uno scenario più completo.
In questo modo è stato possibile acquisire i dati relativi alla brillanza media a 30° di altezza al di sopra dell’orizzonte, alla brillanza media nei primi 10° gradi al di sopra dell’orizzonte, alla brillanza media in tutto il cielo e a quanta luce artificiale arriva al suolo proveniente dalla volta celeste. L’esito dell’indagine evidenzia che solo 7 su 28 osservatori astronomici principali hanno una luminosità del cielo allo zenit inferiore all’1% di quella naturale ipotizzata e quindi potrebbero essere ritenuti pressoché incontaminati. La brillanza media a 30° di altitudine al di sopra dell’orizzonte, calcolata la media lungo tutte le direzioni azimutali, mostra il livello di inquinamento in quella che è generalmente considerata la più bassa direzione di puntamento dei telescopi; solo uno degli osservatori presi in esame ha questo parametro al di sotto dell’1%.
Lo studio è stato condotto non solo sugli osservatori maggiori (quelli dotati di strumenti ampi 3 metri e anche di più), ma anche su altre strutture, comprese alcune per astrofili situate in luoghi remoti. Quindi, se non vengono attuate delle strategie mirate a preservare il cielo notturno si rischia di mettere in crisi un importante settore della ricerca. «Dobbiamo cercare di abbassare il livello di inquinamento luminoso – ha affermato Fabio Falchi – per tutelare gli elevati investimenti per la ricerca astronomica e per dare un durevole futuro all’astronomia basata sulle osservazioni dalla Terra».
In alto: il cielo notturno in Namibia (Crediti: Fabio Falchi) – L’immagine nelle sue dimensioni originali è visibile a questo link.