Tutta l’attesa è stata ripagata. Il James Webb Space Telescope si è alzato in volo oggi 25 dicembre, quando in Italia erano le 13.20 italiane – giusto in tempo per il pranzo di Natale. Un lancio da manuale, superando le condizioni climatiche avverse che (dopo diversi rinvii nel corso degli anni) avevano fatto slittare il lancio di altre 24 ore. Frutto della collaborazione tra le agenzie spaziali statunitense, europea e canadese, il Webb è stato portato nello spazio da un razzo Ariane 5 dalla base Esa di Kourou.
Anche l’Agenzia Spaziale Italiana ha partecipato alle operazioni di lancio, monitorando il volo del Webb dalla sua base di Malindi, in Kenya (immagine in basso). Qui, al Luigi Broglio Space Center, il team guidato da Jahjah Munzer dell’ASI ha effettuato il primo contatto con la missione dopo la separazione, seguendo il lanciatore Ariane 5 con l’antenna MLD2A a partire da 22 minuti dal liftoff (l’acquisizione del primo segnale Jwst sarà dopo circa 45 minuti dal liftoff). Nelle prossime ore Malindi sarà la stazione Prime a seguire Webb (per circa 1 ora e 11 minuti), e successivamente diventerà la stazione backup della base Nasa di Canberra (per circa 2 ore e 15 minuti). Tornerà a essere la stazione Prime per circa 2 ore e mezzo effettuando anche misure di telemetria e tracking. E così, oltre trent’anni dopo quella prima proposta nel 1989 di costruire un successore di Hubble, il telescopio spaziale di ultima generazione ha finalmente iniziato il suo viaggio verso lo spazio profondo.
Costato circa 10 miliardi di dollari, il Webb è una delle missioni spaziali più attese del nostro secolo. Giungerà dove nessun telescopio è mai arrivato, nel cosiddetto punto lagrangiano L2 a circa un milione e mezzo di chilometri dal nostro pianeta. Questo pone al tempo stesso possibilità osservative e sfide tecnologiche senza precedenti.
«È un telescopio anastigmatico, – spiega l’astrofisica Barbara Negri, responsabile dell’Unità Volo Umano e Sperimentazione Scientifica dell’Agenzia Spaziale Italiana – che con i suoi tre specchi ricurvi ha la possibilità di eliminare i tre ‘errori’ principali dell’osservazione astronomica, ovvero l’aberrazione sferica, il cromatismo e l’astigmatismo stesso. Quindi da un punto di vista tecnologico è più affidabile, ma è una grande impresa la sua apertura. Se pensiamo che è un telescopio di 6 metri e mezzo, già abbiamo un’idea della difficoltà. Lo specchio primario, che è il più complesso, è formato da 18 segmenti di specchi esagonali, che dovranno essere dispiegati in 3 sezioni. Quindi la prima fase della missione è tutta un’incognita, e ci vorranno sei mesi perché il Webb sia in condizione di operare».
Ma, se tutto andrà come previsto, questa missione potrebbe completamente rivoluzionare l’astronomia a infrarossi.
«Si potrà andare indietro nel tempo alle prime fasi del Big Bang – conclude l’astrofisica – e quindi studiare in maniera molto più approfondita la struttura dell’universo, la prima luce, la formazione delle prime galassie, la nascita di stelle e pianeti. E poi c’è l’importante campo scientifico aggiunto più recentemente, ovvero la ricerca di condizioni di vita su pianeti che orbitano intorno ad altre stelle, gli esopianeti. In particolare, la ricerca di biofirme: elementi chimici come l’ozono e il metano. Con queste premesse, siamo sicuri che James Webb aprirà frontiere scientifiche nuove».