Se guardiamo un quadro troppo da vicino, rischiamo di perderci nei dettagli e farci sfuggire la visione d’insieme. Lo stesso sembra stia accadendo con uno dei più grandi misteri dell’astrofisica, la materia oscura. Da anni gli scienziati si addentrano nell’infinitamente piccolo per trovare il candidato ideale per questa ineffabile componente del cosmo, che costituisce circa l’85% della massa totale dell’universo. Ma ad oggi non esiste ancora una teoria condivisa sull’identità e la composizione della famigerata dark matter.
Secondo un nuovo studio del Lawrence Berkeley National Laboratory, il problema potrebbe stare proprio nell’approccio: uno sguardo troppo da vicino, che ha fatto perdere agli scienziati il quadro complessivo. L’articolo, pubblicato ieri su Physical Review Letters, afferma che la materia oscura potrebbe nascondersi nei dati esistenti. Gli esperimenti già svolti, così come le analisi dati già effettuate, potrebbero essere riutilizzati per cercare con un approccio più ampio segnali della materia oscura sfuggiti fino adesso.
I ricercatori del Berkeley Lab suggeriscono di concentrarsi in particolare sugli esperimenti che operano facendo collidere i nuclei atomici attraverso un procedimento chiamato scattering. In base a questo fenomeno, onde o particelle vengono deflesse a causa della collisione con altre onde o particelle. Secondo il nuovo studio, eventuali segnali della presenza di materia oscura potrebbero emergere grazie all’energia assorbita dai nuclei atomici. Il processo di assorbimento potrebbe infatti dare una sorta di “calcio” all’atomo, inducendolo così a emettere specifici segnali a seconda del tipo di particella di materia oscura.
«Modificando lievemente i modelli esistenti – commenta Jeff Dror, leader dello studio – è possibile arrivare a isolare un tipo di segnale completamente nuovo. Possiamo fare grandissimi progressi a costi molto contenuti, semplicemente facendo un passo indietro rispetto al modo in cui abbiamo pensato la materia oscura fino adesso».
Il Berkeley Lab ha già iniziato ad applicare questa ipotesi in collaborazione con il team dell’Enriched Xenon Observatory, un esperimento tutt’ora in corso che punta a identificare nei neutrini una particolare reazione nota come doppio decadimento beta. Con piccole modifiche, questo esperimento sarà in parte convertito alla caccia di possibili segnali prodotti da particelle di materia oscura. «I dati potrebbero essere già lì – conclude Dror, – si tratta solo di sapere dove guardare».