Che Venere un tempo sia stato un pianeta geologicamente attivo è ormai una teoria ampiamente verificata. Diverse ricerche hanno evidenziato prove di vulcani e flussi di lava nel suo passato, ma finora non è stato ancora possibile stabilire l’età precisa di tali flussi.

Un nuovo studio, guidato da un team dell’Universities Space Research Association, sostiene che il pianeta potrebbe ancora ospitare vulcani attivi.

Il team di ricerca ha iniziato lo studio sul vulcanismo di Venere nel 2010, dopo aver osservato – attraverso i dati della missione Esa Venus Express – emissioni elevate di luce visibile a infrarossi in diverse aree del pianeta. Queste emissioni sono state ricondotte a possibili flussi di lava ma a causa della densa atmosfera di Venere non è stato possibile avanzare ulteriori ipotesi.

Successivamente, gli scienziati hanno condotto alcuni esperimenti in laboratorio utilizzando i cristalli di olivina, un minerale comune nella roccia vulcanica, rilevato anche su Venere.

L’olivina è stata ossidata a 600 e 900 gradi Celsius per diverse settimane. Dopo quasi un mese, il minerale ha sviluppato uno strato di ematite, che ha modificato le lunghezze d’onda della luce riflessa. Questa non è di certo una prova diretta del vulcanismo su Venere ma resta un risultato rilevante poiché se l’olivina si ossida rapidamente sotto la calda atmosfera del pianeta, significa che quella osservata da Venus Express potrebbe essere recente.

«Le reazioni chimiche tra la crosta basaltica di Venere e la sua atmosfera modificano la mineralogia e la composizione della superficie e ne influenzano le caratteristiche spettrali visibili a infrarossi vicini», spiega Justin Filiberto, autore principale dello studio.

Secondo quanto ipotizzato dal team di ricerca, i vulcani potrebbero aver spinto l’olivina sulla superficie di Venere pochi giorni prima delle osservazioni della missione Esa. Oltre all’olivina, Venus Express ha registrato picchi occasionali di anidride solforosa atmosferica che confermerebbero la teoria del vulcanismo attivo sulla superficie del pianeta.

Lo studio è stato pubblicato su Science Advances.