Meno di 10 milioni di chilometri quadrati: è questa la misura registrata per l’ampiezza del buco dell’ozono, che grava sull’Antartide, nella seconda metà di settembre e nel corrente mese di ottobre. Si tratta del valore minimo dal 1982 ad oggi e a rilevarlo sono stati alcuni satelliti della Nasa e della Noaa (National Oceanic and Atmospheric Administration), dimostrando ancora una volta il ruolo chiave della tecnologia spaziale nel monitoraggio ambientale e climatico; alle misurazioni satellitari, la Noaa ha anche affiancato quelle condotte tramite pallone.
I satelliti coinvolti sono tre: Aura (Nasa), Suomi-Npp (Nasa-Noaa) e Jpss-Noaa 20 (Noaa). Aura, lanciato nel 2004, è stato progettato per studiare l’ozonosfera e la qualità dell’aria e con il suo strumento Mls (Microwave Limb Sounder) è in grado di misurare, nella stratosfera, il livello di cloro, una delle sostanze che minacciano la ‘salute’ dell’ozono. Suomi-Npp, in orbita dal 2001, è stato ideato per svolgere varie tipologie di monitoraggio e tiene sotto controllo l’ozono con la suite di strumenti Omps (Ozone Mapping and Profiler Suite). Jpss-Noaa 20, infine, attivo dal 2017, è parte di una costellazione in fieri dedicata all’osservazione della Terra e monta la stessa suite di Suomi-Npp per vigilare sull’ozono. Le osservazioni effettuate da questo trio di satelliti sono state integrate dai dati raccolti dalla Noaa tramite apposite sonde collocate su pallone; queste campagne di osservazione hanno permesso di misurare i livelli dell’ozono verticalmente, attraverso l’atmosfera.
Il responso di questa attività di monitoraggio è senz’altro positivo, se si pensa che nello stesso periodo, di solito, l’ampiezza del buco supera abbondantemente i 10 milioni di chilometri quadrati e che ai primi di settembre 2019 aveva raggiunto 16,4 milioni di chilometri quadrati. Gli esperti sono però cauti nel valutare il risultato: un’analisi approfondita dei dati, infatti, ha evidenziato che la riduzione si deve ai valori elevati delle temperature stratosferiche e non è indicativa di un vero e proprio processo di risanamento.
Il buco sull’Antartide si forma durante l’ultimo periodo dell’inverno australe, quando l’azione dei raggi solari dà il via ad una serie di reazioni chimiche che coinvolgono il cloro e il bromo (derivanti da attività umane) e anche le nubi nelle fasce fredde della stratosfera; con le temperature calde di quest’anno si sono formate poche nubi e quindi il processo di riduzione dell’ozono è stato limitato.
Questa diminuzione, negli ultimi 40 anni, è stata registrata anche per i mesi di settembre del 1988 e del 2002: si tratta quindi di un evento raro che gli studiosi stanno ancora cercando di comprendere e per il quale, al momento, non è stata identificata una specifica connessione con il cambiamento climatico.
Le ultime misurazioni, effettuate a metà ottobre, mostrano che il buco ha mantenuto la sua ampiezza ridotta e dovrebbe dissolversi nelle prossime settimane. Il fenomeno dovrebbe gradualmente diventare meno grave in relazione al lento calo (registrato dal 2000 in poi) delle sostanze nocive per l’ozono; i ricercatori, però, ritengono che bisognerà attendere il 2070 perché il prezioso schermo protettivo della Terra torni ai livelli del 1980.