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L’esposizione diretta al vuoto spaziale è una condizione impossibile da sostenere per il nostro organismo. L’assenza di ossigeno, il bombardamento radioattivo, le escursioni termiche e i raggi ultravioletti, ci farebbero morire entro pochi minuti. Non si tratta di una fragilità esclusivamente umana:  la maggior parte degli esseri viventi non riesce a sopravvivere a queste situazioni estreme perché l’evoluzione biologica si è plasmata in milioni di anni per sopportare esclusivamente le condizioni ambientali terrestri.
Ma esistono delle eccezioni, forme di vita che hanno dimostrato capacità di adattamento impressionanti, unite a una straordinaria resilienza, proliferando in luoghi biologicamente ostili come i ghiacci polari, i deserti più aridi, i crateri dei vulcani.
In più casi, gli scienziati hanno portato alcuni di questi organismi nello spazio, esponendoli al vuoto senza alcuna protezione, per studiarne i meccanismi di adattamento e le possibili mutazioni.

L’ultimo di questi esperimenti riguarda un tipo di muschio, Physcomitrium patens, lasciato all’esterno della Stazione Spaziale Internazionale per nove mesi e poi riportato sulla Terra per analizzarlo. I risultati, prodotti da un team di scienziati giapponesi coordinati dal biologo dell’Università di Hokkaido Tomomichi Fujita, sono stati appena pubblicati su iScience, la rivista scientifica interdisciplinare edita da Cell Press.
Per scoprire  quale struttura del muschio avesse le migliori probabilità di sopravvivenza nello spazio, sono stati analizzati i protenemi (lo stadio giovanile), le cellule di propagulo (staminali specializzate che emergono in condizioni di stress) e gli sporofiti (che contengono le spore racchiuse). Inizialmente, sono stati utilizzati ambienti estremi simulati, ricreati nei laboratori terrestri.

Il contenitore con le spore di muschio utilizzato all'esterno della Stazione Spaziale Internazionale. La moneta da 100 Yen a destra serve a far comprendere le dimensioni(Crediti: Tomomichi Fujita, Università di Hokkaido/Jiji)

Il contenitore con le spore di muschio utilizzato all’esterno della Stazione Spaziale Internazionale. La moneta da 100 Yen, a destra, serve a far comprendere l’ordine di grandezza
(Crediti: Tomomichi Fujita, Università di Hokkaido/Jiji)

In questi esperimenti, la radiazione ultravioletta si è rivelata l’elemento più letale. Nessuno dei protenemi è sopravvissuto a livelli elevati di Uv o alle escursioni termiche. Le cellule di propagulo hanno mostrato una resistenza maggiore, mentre gli sporofiti hanno superato le previsioni: le loro spore incapsulate sono risultate circa 1.000 volte più tolleranti ai raggi Uv e sono sopravvissute sia a −196 °C, per oltre una settimana, sia a 55 °C per un mese.
Secondo i ricercatori, la struttura che avvolge la spora funge da barriera protettiva fisica e chimica, assorbendo la radiazione Uv e preservando l’integrità cellulare. Questa caratteristica potrebbe essere un retaggio evolutivo risalente a 500 milioni di anni fa, quando i briofiti iniziarono la transizione dagli ambienti acquatici a quelli terrestri.

Successivamente, si è proceduto alla prova ‘sul campo’ , inviando centinaia di sporofiti sulla Stazione Spaziale Internazionale con la navetta da rifornimento Cygnus Ng-17. Una volta in orbita, gli astronauti hanno fissato i campioni all’esterno del modulo giapponese della Stazione ‘Kibo‘, dove sono rimasti esposti per 283 giorni. Il rientro è avvenuto nel gennaio 2023 con la missione SpaceX Crs-16.
In questa seconda fase, il risultato ha sorpreso al di là di ogni aspettativa: la maggior parte delle spore è sopravvissuta e, una volta tornate in laboratorio,  l’89% ha ripreso a germinare. Le analisi hanno mostrato livelli di clorofilla normali in quasi tutte, salvo una riduzione del 20% della clorofilla-a, un pigmento sensibile alla luce visibile, senza apparenti conseguenze sulla salute generale delle spore.
Utilizzando i dati raccolti prima e dopo la missione, i ricercatori hanno elaborato un modello matematico per stimare la durata potenziale della sopravvivenza nello spazio: fino a 5.600 giorni, circa 15 anni. Si tratta però di un valore preliminare, che richiederà ulteriori dati per essere confermato.

Secondo gli autori, questi risultati non solo offrono nuove prospettive sull’evoluzione della vita terrestre, ma potrebbero aprire la strada allo sviluppo di sistemi agricoli basati sui muschi per ambienti extraterrestri e alla valutazione del potenziale del suolo di altri corpi celesti.

 

Guarda anche l’approfondimento sulla ‘Niallia tiangongensis’, la nuova specie batterica trovata sulla stazione spaziale cinese Tiangong 👉

Foto in alto: La germinazione delle spore di muschio precedentemente esposte al vuoto spaziale.
Crediti: Dr. Chang-hyun Maeng e Maika Kobayashi