Una nuova analisi dei dati raccolti da Rosetta, la storica missione Esa che per prima ha visto il contatto ravvicinato tra una navicella spaziale e una cometa, potrebbe rivelare un ‘anello mancante’ nella nostra comprensione dell’evoluzione planetaria. È quanto emerge da uno studio appena pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, secondo cui la composizione delle comete potrebbe fornirci nuovi indizi sull’origine del nostro sistema solare.
Conclusa il 30 settembre 2016 con l’impatto del lander Philae sulla cometa 67P Churyumov-Gerasimenko, la missione Rosetta ha portato a termine con successo i suoi 12 anni di vita operativa. Ora un gruppo di ricerca coordinato dall’Università di Braunschweig, in Germania, ha utilizzato i dati raccolti per scoprire in che modo è nata 67P, detta anche Chury.
“I nostri risultati – spiega Jürgen Blum, leader dello studio – mostrano che soltanto uno dei tanti modelli proposti per la formazione dei grandi corpi celesti nei giovani sistemi planetari si può adattare a Chury. Si tratta del modello secondo cui un insieme di ‘sassolini’ di polvere vengono compressi in modo così forte dall’instabilità della nebulosa solare che la loro forza gravitazionale li porta al collasso.” Sarebbe dunque questo il tassello mancante per comprendere anche la nascita dei pianeti che, secondo i ricercatori, si formerebbero a seguito dell’accrescimento gravitazionale messo in moto da tale fenomeno. “Nonostante sembri molto drammatico – racconta Blum – si tratta in realtà di un processo ‘gentile’, in cui gli agglomerati di polvere non vengono distrutti ma combinati in un corpo celeste più grande, con un’attrazione gravitazionale ancora più forte. L’accumulo di questi agglomerati di polvere dà quindi origine ai nuovi corpi celesti.”