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Un team di ricercatori ha analizzato nuovamente i dati raccolti quasi mezzo secolo fa dalla sonda Pioneer Venus (Pv) Large Probe, rivelando che gli aerosol atmosferici di Venere possiedono una composizione molto più articolata di quanto si fosse ipotizzato finora.
I risultati di queste analisi, pubblicati recentemente sul Journal of Geophysical Research: Planets, indicano che le nubi venusiane contengono quantità rilevanti di acqua e ferro, oltre a confermare la presenza di acido solforico.
Secondo il gruppo di scienziati, guidato dal professore di chimica e biochimica presso la California State Polytechnic University di Pomona Rakesh Mogul, gli aerosol dell’atmosfera conterrebbero, in termini di massa, circa il 20% di solfati di ferro, un altro 20% di acido solforico e fino al 60% di acqua. Quest’ultima non è presente come vapore, ma legata in composti idrati, come solfato ferrico idrato o solfato di magnesio idrato.
La scoperta è in contrasto con la visione finora accettata dalla comunità scientifica, che descriveva le nubi venusiane come costituite quasi esclusivamente da acido solforico concentrato e con un’atmosfera estremamente arida.

L’8 agosto del 1978, nell’àmbito del Programma Pioneer, la Nasa lanciò la Pioneer Multiprobe, formata da una sonda principale e tre sonde atmosferiche più piccole. Questa raggiunse Venere nel dicembre successivo, penetrando nell’atmosfera per raccogliere informazioni sulle sue caratteristiche. Sulla sonda primaria, il Venus Large Probe, era stato montato uno strumento molto sofisticato chiamato Large Probe Neutral Mass Spectrometer (Lnms) con il quale si analizzò la composizione e l’abbondanza dei gas atmosferici del pianeta. I dati raccolti durante la discesa nell’atmosfera furono registrati e poi archiviati dalla Nasa su microfilm, finendo nell’oblio per decenni. Soltanto nel 2021, grazie alla collaborazione tra Mogul, Sanjay S. Limaye (Università del Wisconsin) e Michael J. Way (Nasa), il materiale è stato recuperato dagli archivi e reso disponibile per le analisi, alle quali ha contribuito anche Mikhail Yu. Zolotov, scienziato della Arizona State University specializzato in geologia venusiana.

Durante la discesa la sonda catturò particelle di aerosol, che si decomposero termicamente a causa delle alte temperature atmosferiche liberando acqua (H₂O), anidride solforosa (SO₂), ossigeno (O₂) e probabilmente ossido ferrico (Fe₂O₃). Questi composti furono rilevati dallo spettrometro come ioni molecolari (H₂O⁺, SO₂⁺, O₂⁺, FeO⁺). I valori erano in accordo con quelli raccolti dalle sonde sovietiche Venera e Vega, dotate di sensori chimici, che avevano registrato in modo analogo la presenza abbondante di acqua nelle nubi, a seguito della cattura accidentale di aerosol.
Le nuove analisi dei dati statunitensi e sovietici, condotte con tecniche evolute per l’interpretazione dei gas, confermano che tutti gli strumenti a contatto con gli strati nuvolosi avevano effettivamente campionato e misurato gli aerosol.

Queste nuove evidenze scientifiche aprono prospettive inedite per lo studio di Venere. La presenza di acqua e ferro negli aerosol non solo modifica i modelli noti di chimica atmosferica, ma rilancia il dibattito sulla potenziale abitabilità delle nubi.
Malgrado le caratteristiche estreme della superficie rendano il pianeta totalmente inospitale per la vita, la sua spessa copertura di nuvole potrebbe offrire ad alte quote condizioni favorevoli a forme di vita microbica, essendoci disponibilità di luce solare, nutrienti e acqua.
Inoltre, la possibile origine del ferro da materiale cosmico solleva interrogativi sulla dinamica degli apporti esterni nell’atmosfera venusiana. Per avere dati più accurati, però, servirebbero nuove analisi, svolte con strumenti di misura di ultima generazione.
«Questo tipo di composizione, mai identificata prima, rende ancora più urgente l’esplorazione del pianeta con missioni dedicate», ha sottolineato il professor Rakesh Mogul.

Immagine: Un disegno che mostra la ‘flotta’ delle quattro sonde Pioneer Venus Mutliprobe, entrate nell’atmosfera venusiana il 9 dicembre 1978. Durante la discesa trasmisero continuamente dati ma solo una riuscì a toccare il suolo, continuando a funzionare per un’ora.
Crediti: Nasa – Paul Hudson