Sono una piaga che affligge gli oceani e costituiscono un nemico insidioso per la fauna e – più in generale -per gli ecosistemi marini: si tratta delle microplastiche, al centro di un nuovo studio di Scientific Reports (articolo: “Effects of microplastics and surfactants on surface roughness of water waves”).

L’indagine, svolta da un gruppo di lavoro dell’Università del Michigan, riguarda una nuova tecnica di tracciamento di questo tipo di rifiuti e si è basata sia su dati satellitari, sia su test.Nello specifico, le informazioni raccolte dallo spazio provengono dalla costellazione Cygnss (Cyclone Global Navigation Satellite System), lanciata nel 2016; si tratta di un sistema di 8 micro-satelliti il cui compito è misurare la velocità dei venti che spirano sugli oceani per approfondire la formazione degli uragani.

Secondo le attuali stime, le tonnellate di plastica che ogni anno invadono i mari sono 8 milioni; quando questi detriti si frantumano danno luogo alle pericolose microplastiche che, sospinte dalle correnti, si disperdono per migliaia di chilometri. Il tracciamento e la rimozione di queste particelle sono piuttosto difficoltosi, ma già nel 2021 l’Università del Michigan aveva proposto un proficuo utilizzo dei dati di Cygnss mirato a individuarle e a seguire i loro percorsi giorno per giorno.

Ora, l’ateneo statunitense torna sull’impiego di tali informazioni e prospetta una nuova tecnica di tracciamento. Gli scienziati, infatti, hanno notato che i satelliti Cygnss riescono a individuare molto bene i residui di sostanze tensioattive che ‘accompagnano’ le microplastiche; dai dati emerge che le acque oceaniche contaminate da questi frammenti hanno una minore rugosità di superficie rispetto alle aree pulite.

Dai test effettuati, il gruppo di lavoro ha riscontrato che la differente rugosità non è provocata dalla plastica in sé, ma dai tensioattivi; queste sostanze, che possono essere oleose o saponate, fanno sentire pesantemente la loro influenza sulla superficie oceanica. Infatti, l’acqua ‘carica’ di tensioattivi ha bisogno di più vento per produrre onde di una certa dimensione che poi tendono a dissolversi più rapidamente rispetto a quanto avviene nell’acqua pulita.

Gli studiosi ritengono che l’interazione tra rugosità dell’acqua, microplastiche e tensioattivi richieda ulteriori approfondimenti da condurre integrando diverse tipologie di dati (satellitari e campioni di acqua) e di metodi di indagine (osservazioni dallo spazio e modelli informatici).

In alto: microplastiche che galleggiano in una delle vasche del Laboratorio di Idrodinamica Marina ‘A. Friedman’ dell’Università del Michigan (Crediti: Robert Coelius/Michigan Engineering)