Sono tra gli ecosistemi più produttivi e ricchi di biodiversità, ospitano il 40% delle specie animali e vegetali esistenti sulla Terra, ma sono estremamente delicati e stanno diminuendo ad un tasso allarmante: si tratta delle zone umide, ovvero quelle aree che la Convenzione Internazionale di Ramsar del 1971 definisce, all’Art. 1, come “(…) le paludi e gli acquitrini, le torbiere oppure i bacini, naturali o artificiali, permanenti o temporanei, con acqua stagnante o corrente, dolce, salmastra, o salata, ivi comprese le distese di acqua marina la cui profondità, durante la bassa marea, non supera i sei metri”.
Come avviene per altri ecosistemi del nostro pianeta, la tecnologia spaziale può essere un elemento chiave nella protezione e nella gestione oculata delle zone umide, la cui importanza è riconosciuta anche con una giornata internazionale che si celebra il 2 febbraio di ogni anno.
Tra i satelliti che vigilano su questi preziosi habitat vi sono quelli del programma Nasa-Usgs Landsat. I dati Landsat raccolti in quasi 40 anni di attività sono al centro di uno studio che ha analizzato l’andamento delle zone umide della Louisiana; il paper, pubblicato su Journal of Geophysical Research: Biogeosciences (articolo: Leveraging the Historical Landsat Catalog for a Remote Sensing Model of Wetland Accretion in Coastal Louisiana), è stato coordinato dal Jpl della Nasa.
Il gruppo di lavoro, utilizzando l’archivio di Landsat, ha elaborato un nuovo modello che può essere proficuamente applicato a habitat analoghi (ad esempio, l’Amazzonia, il delta del Nilo e le torbiere della Siberia); il modello in questione è stato il primo a calcolare direttamente i tassi di accrescimento del suolo nelle zone umide costiere, basandosi su dati satellitari integrati con osservazioni aeree e rilievi sul campo.
Il team della ricerca, quindi, ha passato in rassegna i dati Landsat dal 1984 al 2020 e ha constatato che, nell’arco di 36 anni, le zone umide della Louisiana hanno perduto un’estensione di 54 chilometri quadrati all’anno. I fattori che hanno determinato le perdite sono molteplici: l’innalzamento del livello dei mari, l’azione devastatrice degli uragani, l’espansione di infrastrutture estrattive e infine gli interventi di ingegneria fluviale e costiera. Secondo i geologi, questi interventi sono stati la causa principale del declino delle zone umide.
Infatti, questi preziosi habitat si formano in base a lunghi processi di raccolta di sedimenti e materiale organico trasportati da fiumi e torrenti; l’accumulo crea così un nuovo suolo che contrasta l’erosione, l’innalzamento dei mari e il cedimento dei terreni. Gli interventi umani per regolare il corso delle acque, effettuare canalizzazioni ed erigere terrapieni spesso deviano o bloccano i flussi dei sedimenti, isolando le zone umide dalle loro fonti di ‘nutrimento’; una situazione di questo tipo si è verificata per i bacini Terrebonne e Barataria, che hanno perduto oltre 460 chilometri quadrati.
I dati Landsat, però, mostrano che in alcuni casi l’ingegnerizzazione delle acque ha avuto un effetto positivo per gli habitat umidi: ad esempio, la zona nota come ‘Bird’s Foot Delta’, presso la foce del Mississippi, ha guadagnato oltre 100 chilometri quadrati di terreno. Gli autori del saggio, quindi, ipotizzano che, tramite accurati interventi di canalizzazione, una parte delle zone umide possa essere adeguatamente ‘nutrita’ e salvata.
Comprendere i meccanismi sottesi all’andamento delle zone umide – sostengono gli scienziati – è di fondamentale importanza non solo per la salvaguardia dell’ambiente e della biodiversità, ma anche per sostenere con oculatezza le attività economiche ad esse legate.
In alto: le zone umide della Louisiana viste da Landsat 8 (Crediti: Landsat 8/Nasa Earth Observatory)