È stato progettato per monitorare le polveri minerali delle regioni desertiche della Terra e la loro influenza sul clima, ma si sta rivelando uno strumento duttile che può essere impiegato efficacemente anche per altre rilevazioni: è lo spettrometro Emit della Nasa che, dall’alto della Stazione Spaziale, sta marcando stretto il metano.

Questo gas contribuisce all’effetto serra e le sue emissioni possono essere generate sia da sorgenti naturali, come le paludi, sia da una vasta gamma di attività umane, tra cui la produzione e la lavorazione di combustibili fossili, l’agricoltura e la gestione delle acque reflue.

Il metano, per quantità di emissioni, è il secondo gas serra antropogenico dopo il biossido di carbonio ma è molto più insidioso perché è maggiormente in grado di intrappolare il calore nell’atmosfera della Terra. Di conseguenza, è fondamentale tracciare e gestire le emissioni di questo nemico ambientale, sia quelle che si verificano casualmente, sia e soprattutto quelle che sono connesse a processi industriali. La riduzione delle emissioni di metano è cruciale nella lotta al cambiamento climatico: nella conferenza Cop26 – tenutasi a Glasgow nell’autunno 2021 – oltre 100 paesi hanno sottoscritto il Global Methane Pledge che mira a limitare le emissioni del 30% entro il 2030.

Emit (Earth Surface Mineral Dust Source Investigation), installato sulla Iss lo scorso luglio, è uno spettrometro in grado di produrre dati di qualità elevata e con portate molto più ampie rispetto a strumenti precedenti. Proprio pochi giorni fa, ha realizzato le sue prime mappe e ora torna alla ribalta per un’attività che esula dal suo compito principale ma che è di fondamentale importanza per tenere sotto controllo il cambiamento climatico: il monitoraggio del metano, appunto.

Da quando è stato installato, Emit ha raccolto una serie di dati relativi all’inquinamento da metano che ha permesso al team della missione di identificare ben 50 siti definiti ‘super-emettitori’. Le località si trovano in Asia centrale, in Medio oriente e nel sud ovest degli Stati Uniti e sono connesse alla lavorazione delle scorie dei combustibili fossili e al comparto agricolo; si tratta di hotspot inquinanti che erano in buona parte già noti ma che, grazie ai dati di Emit, sono stati esaminati sotto una nuova luce. In particolare, lo spettrometro ha individuato dei pennacchi gassosi di grandi dimensioni, di cui alcuni risultano tra i più vasti mai osservati prima; uno di essi, lungo oltre 3 chilometri, sovrasta l’area petrolifera del bacino Permiano tra Nuovo Messico e Texas. Altre emissioni extralarge sono state individuate sopra la città portuale di Hazar in Turkmenistan, che ospita impianti petroliferi; in questo caso, Emit ha ‘visto’ 12 pennacchi, di cui alcuni, sospinti verso ovest, si estendono anche per più di 30 chilometri. Un’altra emissione di rilievo è stata notata nei pressi di Teheran, in Iran, al di sopra di un grande impianto per il trattamento dei rifiuti.

Gli scienziati, inoltre, sono stati in grado di calcolare i tassi di emissione orari per ciascun sito; ad esempio, il tasso del bacino Permiano è di 18.300 kg/ora, quello di Hazar è addirittura di 50.400 kg/ora e infine quello di Teheran è di 8.500 kg/ora.

Anche in questo caso la tecnologia spaziale ha fatto la differenza: contando su un punto di vista privilegiato, Emit – la cui missione durerà un anno – ha potuto effettuare delle misurazioni di grande rilievo per lo studio dei cambiamenti climatici.

In alto: i pennacchi di metano in Turkmenistan. L’immagine in dimensioni reali a questo link (Crediti: Nasa/Jpl-Caltech)