Cosa succede nelle profondità dei pianeti ghiacciati? C’è acqua liquida e, se sì, come interagisce con il fondo roccioso planetario? Uno studio internazionale, guidato dalla Yonsei University of Seoul, ha evidenziato che, sui pianeti composti in gran parte da  ghiaccio d’acqua, l’acqua filtra selettivamente il magnesio dai tipici minerali delle rocce.  Per dimostrarlo, gli scienziati hanno ricreato le condizioni delle profondità dei pianeti, con pressioni che hanno raggiunto le centomila atmosfere e temperature superiori a mille gradi. I risultati sono stati pubblicati su Nature Astronomy. 

Nel Sistema Solare Nettuno e Urano sono classificati come giganti di ghiaccio: hanno uno spesso rivestimento esterno di ghiaccio d’acqua, situato sotto un profondo strato roccioso e  gli scienziati discutono ancora sulla temperatura della sua interfaccia, che potrebbe essere sufficientemente alta da permettere la formazione di acqua liquida.

Per dimostrare la loro teoria, gli scienziati hanno posizionato delle minuscole paline di polvere di olivina insieme all’acqua all’interno di una camera campione, schiacciata tra due incudini di diamanti. I campioni sono stati riscaldati  da un laser a infrarossi attraverso le incudini. Così facendo, gli scienziati hanno osservato un’improvvisa diminuzione del segnale di diffrazione dai minerali di partenza e la comparsa di  brucite (idrossido di magnesio), durante i cicli di riscaldamento e spegnimento.  In sostanza – a queste pressioni e temperature estreme – la solubilità dell’ossido di magnesio in acqua raggiunge livelli simili a quella del sale in condizioni ambientali. 

I risultati della ricerca non sono rilevanti solo per lo studio dei pianeti del nostro Sistema Solare, ma anche per  quello degli esopianeti  «La dissoluzione intensiva dell’ossido di magnesio all’interfaccia tra lo strato d’acqua e il mantello roccioso sottostante potrebbe produrre, in esopianeti ricchi di acqua con dimensioni e composizione simili a quelle di TRAPPIST-1f, un gradiente chimico con confine sfocato tra gli strati – afferma Yongjae Lee, autore dello studio – nel caso di grandi pianeti ghiacciati come Urano, le tracce delle interazioni iniziali, relativamente poco profonde, tra l’acqua e il materiale roccioso durante le prime fasi calde dell’accrescimento planetario, potrebbero anche essere conservate per miliardi di anni nel suo attuale mantello ricco d’acqua, spiegando la sua luminosità superficiale insolitamente bassa».