Gli esperimenti a bordo della Stazione spaziale internazionale stanno dando ottimi risultati. Idem quelli condotti sulla Terra in zone con condizioni ambientali estreme. Lo stesso non si può dire dei primi tentativi realizzati sulla Luna, ma poco importa: la coltivazione di cibo nello Spazio è ormai realtà e sempre più darà risultati positivi nei prossimi anni. Del resto, se è vero che nel 2024 “andremo sulla Luna e questa volta per restarci”, come ha annunciato la Nasa presentando la missione Artemis, se è vero che quello sarà il trampolino di lancio per raggiungere Marte entro il 2040, come previsto dall’Agenzia spaziale europea, è chiaro che né la prima né la seconda cosa si potranno fare senza la produzione in loco di cibo fresco. E allora, oltre a ragionare su motori sempre più potenti e a minor consumo energetico, i ricercatori al di qua e al di là dell’Atlantico stanno mettendo a punto pratiche e tecnologie utili a garantire un’adeguata alimentazione alle future colonie che si insedieranno suo nostro satellite e alle missioni che in circa sei mesi di volo raggiungeranno il Pianeta Rosso.

Oggi gli astronauti a bordo della Stazione spaziale internazionale possono contare, oltre che sui cibi liofilizzati, sugli alimenti che periodicamente vengono spediti dalla Terra. Ma i 400 chilometri che ci separano dalla Iss sono niente, se paragonati ai 56 milioni di chilometri (per non parlare dei 400 milioni, quando i due pianeti sono nel punto di massima distanza) che ci separano da Marte. Avere cibi freschi a disposizione, per gli astronauti, è fondamentale non solo perché i cibi liofilizzati, quand’anche arricchiti di integratori ad alto assorbimento, solitamente non riescono ad apportare all’organismo sufficienti quantitativi di sali minerali (in particolare potassio) e vitamine (in particolare dei gruppi B, C e K). C’è anche un fattore psicologico di cui si deve tener conto, un tema che ha a che fare non solo con la sopravvivenza fisica ma anche con il benessere mentale. Lontani da casa, circondati di tecnologia ma così profondamente separati dalla “madre Terra”, per gli astronauti è di grande importanza poter avere a disposizione cibi “naturali”, piantarli e vederli crescere, e poi mangiarli insieme ai compagni di missione. Non a caso Paolo Nespoli raccontava che una delle cose che gli mancavano di più nello Spazio era l’aspetto conviviale del cibo e anche che avrebbe voluto un bonsai nella sua cabina per “fargli compagnia”, per poter odorare quel po’ di terra, toccare quel piccolo legno, guardare le verdi foglie. E non a caso Luca Parmitano, con tutte le cose che aveva da fare come comandante dell’Iss, ha trovato il tempo e il modo per impastare e poi cuocere in un apposito fornello dei biscotti con tanto gocce di cioccolato.

E poi, insieme all’alimentazione e al benessere psicologico, c’è un altro motivo per cui è necessario coltivare piante a bordo di missioni spaziali di lungo periodo o sul suolo lunare e marziano: oltre a fornire nutrimenti, i vegetali attraverso la fotosintesi producono ossigeno. Altro elemento, con acqua e cibo, essenziale alla vita. E quindi sono di fondamentale importanza progetti come “Melissa”, a cui l’Esa lavora da anni per creare a bordo delle navicelle o delle basi spaziali dei cicli vitali chiusi in cui grazie al riuso circolare delle risorse sia possibile produrre ossigeno, acqua e cibo. Si tratta di sistemi definiti biorigenerativi, che cioè ricreino su piccola scala quel che avviene su larga scala sul nostro pianeta.

Gli esperimenti, in orbita e in territori “estremi” come i deserti o tra i ghiacci dell’Antartide, stanno dando, è il caso di dirlo, buoni frutti. Le esperienze sulla Luna meno: il seme di cotone piantato a inizio 2019 dalla sonda cinese Chang’e 4 ha sì germogliato, ma dopo 213 ore, a causa della mancanza di luce solare e della temperatura scesa a 52 gradi sotto zero, si è inesorabilmente congelato, seccato, morto. Molto diversamente stanno però andando le cose in altri progetti, sia sulla Terra che nello Spazio.

Viva le microverdure

Per ora le soddisfazioni maggiori le stanno dando le cosiddette microverdure, che dopo soli 15 giorni dalla semina danno un raccolto con un tasso di nutrienti molto elevato, le piante di lattuga cresciute in serre idroponiche (prive di terreno di coltura), i vegetali rossi in generale (si è notato che le piante con questo pigmento accumulano antiossidanti naturalmente e hanno maggiori capacità di resistere in ambienti ostili) e un pomodoro in particolare: gli hanno dato anche un nome, MicroTom, ed è un pomodoro nano mutante, nel senso che i ricercatori sono intervenuti geneticamente e lo hanno “biofortificato” e reso capace di compiere il suo ciclo vitale in soli 90 giorni. Perché è importante tener conto anche del fattore tempo? Perché le coltivazioni nello Spazio, oltre che con l’assenza di gravità, devono fare i conti con le radiazioni cosmiche, quindi più breve è il periodo che intercorre tra la semina e la raccolta e meglio è.

Enea e Asi stanno lavorando da anni a questi progetti i cui nomi sono tutto un programma: Hortspace, Idrozaff, BioxTreme, Hortextreme. Il primo, che è stato avviato nel 2018 e che ha “partorito” MicroTom, nasceva proprio dall’esigenza di selezionare delle piante capaci di adattarsi a condizioni ambientali estreme e fuori dall’atmosfera terrestre. E l’ultimo, nato a valle di questo, ha dato vita a un “orto marziano” per la missione internazionale Amadee-18: sono state allestite delle strutture gonfiabili nel deserto dell’Oman all’interno delle quali sono state coltivate quattro specie di microverdure (tra cui cavolo rosso e radicchio) in grado di concludere il ciclo vitale in 15 giorni e di apportare adeguate dosi di antiossidanti e vitamine; il tutto, senza bisogno della luce solare (si è visto che dei semplici led vanno benissimo), senza pesticidi o agrofarmaci e senza la necessità di un terreno in cui far penetrare le radici delle plantuline, che sono state invece alimentate grazie a un sistema centrato sul riciclo dell’acqua (idroponico). I prodotti dell’“orto marziano” sono stati analizzati e mangiati dai cinque astronauti che hanno preso parte alla missione simulata. Analisi e assaggio hanno accertato non solo che vegetali coltivati in tal modo sono commestibili, ma anche che sono altamente nutritivi. E lo stesso si è scoperto di un altro tipo di coltivazione extra-terrestre, in questo caso nel vero senso della parola.

Nelle scorse settimane, più o meno negli stessi giorni in cui venivano assaggiate le microverdure di Amadee-18, sono stati infatti diffusi i risultati di un’altra sperimentazione. A bordo della Stazione spaziale internazionale è stata allestita fin dal 2014 una serra idroponica, battezzata “Veggie”, nella quale è stata a più riprese coltivata della lattuga romana rossa. Ebbene, secondo studi elaborati in laboratori sia europei che statunitensi, tale insalata è non solo priva di microbi patogeni e nutriente quanto le verdure di casa nostra, non solo non ha riportato conseguenze negative per l’assenza di gravità e le radiazioni cosmiche, ma da molti esami risulta avere percentuali più elevate di vitamine e minerali, dal potassio al sodio, dal fosforo allo zinco, e anche maggior quantità di sostanze antinfiammatorie e antivirali.

Un altro esperimento ha dato risultati diversi, ma non per questo negativi, anzi. A bordo dell’Iss sono state coltivate anche delle brasicaceae, famiglia di piante a cui appartengono anche broccoli, verza, cavolfiori. Sono cresciute i maniera diversa rispetto alle loro gemelle terrestri, ma perché hanno saputo reagire alle difficoltà prodotte dalla microgravità, hanno cioè “registrato” l’ambiente atipico del volo spaziale e trovato il modo per adeguarvisi nel modo migliore.

Le proteine, tra allevamenti di insetti e stampanti 3D

Tutto bene quindi? Quasi. Manca ancora qualche tassello per poter avere tutta una produzione a chilometri zero nello Spazio. Primo, perché i vegetali difficilmente, a meno di un’assunzione in grande quantità, possono apportare le 2000, 2500 chilocalorie necessarie quotidianamente (secondo i parametri ad oggi registrati) agli astronauti. Secondo, perché carboidrati, vitamine e sali minerali non sono sufficienti per garantire una corretta alimentazione. Servono le proteine. Proteine che contengano tutti gli aminoacidi essenziali e che siano facilmente assimilabili. E allora va bene l’agricoltura, bene i legumi e anche i semi (come quelli di canapa, che contengono oltre il 30% circa di proteine e alte dosi di Omega 3), ma si sta lavorando anche sull’allevamento extra-terrestre. Allevamento di insetti, per la precisione, che in termini di rapporto peso/percentuale di proteine sono nettamente superiori a qualunque altro tipo di carne. Vari tentativi si stanno facendo in particolare con i bachi da seta, che possono essere nutriti con lattuga (o con il loro preferito gelso, essiccato e reidratato), consumano minor quantità di ossigeno rispetto ad altre specie, contengono oltre alle proteine alte percentuali di sali minerali e grassi insaturi.

Resta da affrontare l’aspetto psicologico di una dieta a base di insetti. E infatti non a caso a bordo dell’Iss è stato realizzato, con un successo, un altro progetto: partendo da alcune cellule bovine aggregate in strutture tridimensionali è stata “creata” con i cosiddetti bio-inchiostri e con una apposita stampante 3D una bella bistecca. La microgravità, tra l’altro, in questo caso è stato non un problema da affrontare ma un vantaggio da sfruttare, perché l’assenza di peso permette una “stampa” in tempi nettamente minori rispetto a quel che avviene sulla Terra.