Sono trascorsi ormai due anni e mezzo da quando la sonda Rosetta dell’Agenzia spaziale europea, avendo completato la sua missione, si è posata per sempre sulla superficie della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko. Ma grazie all’eccellente qualità dei dati raccolti dai suoi strumenti gli scienziati continuano a ottenere risultati e a pubblicare articoli. Come quello uscito oggi su Nature Geoscience: un’analisi geologica e morfologica delle fratture che solcano la superficie della cometa. E in particolare la regione del “collo” (neck): il ponte di roccia che unisce i due lobi di 67P – la testa, appunto, e il corpo.
Esaminando attentamente le immagini ad altissima risoluzione – fino a 20 cm per pixel – ottenute dalla fotocamera Osiris, e in particolare dal tuo “teleobiettivo” (la narrow angle camera), un team di ricercatori guidato dal geologo Christophe Matonti dell’università di Aix-Marseille (Francia), del quale fanno parte anche alcuni astronomi italiani dell’Istituto nazionale di astrofisica e dell’Università di Padova, è giunto a individuare due diversi processi di formazione delle fratture. Se quelle più superficiali sono prodotte dall’escursione termica, quelle più profonde – decine, se non centinaia, di metri – sono invece l’esito di sollecitazioni meccaniche. Segno, quest’ultimo, di omogeneità del nucleo della cometa.
«Sono due i risultati di maggior rilievo del nostro studio», spiega uno dei coautori dell’articolo, Matteo Massironi dell’Università di Padova, istituzione che attraverso il Cisas ha contribuito alla progettazione della fotocamera Osiris. «Anzitutto, per la prima volta siamo stati in grado di ottenere mappe estremamente dettagliate della faglie della cometa. Inoltre, siamo riusciti a stabilire che una parte di queste faglie è dovuta a un’azione di deformazione meccanica. Sono dunque fratture diverse da quelle – più classiche, poligonali – di raffreddamento, già segnalate in passato. Queste sulle quali ci soffermiamo nell’articolo sono fratture più continue e profonde, segno appunto di zone di movimento relativo – noi le chiamiamo “zone di shear” – tra blocchi messi a contatto dai piani di fagliazione. In particolare nella zona del collo, dove queste strutture sono molto frequenti».
Se sull’origine meccanica delle faglie più profonde paiono esserci pochi dubbi, rimane più incerta l’esatta dinamica del fenomeno, anche se nelle conclusioni dell’articolo gli autori puntano il dito verso la tensione fra “testa” e “corpo” della cometa. «Queste fratture attraverso il nucleo attorno al collo», dice infatti Marco Fulle dell’Inaf di Trieste, anch’egli fra i coautori dell’articolo, «sono probabilmente l’esito di sforzi meccanici dovuti al fatto che centro di gravità e punto di contatto fra i due lobi non coincidono: ciò tende a piegare il nucleo. Queste fratture meccaniche, al lavoro da miliardi di anni fin dalla formazione del nucleo per contatto “gentile” fra i due lobi, facilitano frane gravitative, che espongono materiale interno più primitivo e quindi più incline a sublimare – prima grazie ai supervolatili quando 67P era un centauro (orbitante oltre Giove), e successivamente grazie all’acqua quando infine 67P è caduta entro l’orbita di Giove».
Un risultato, questo pubblicato oggi su Nature Geoscience, che non riguarda solo la cometa di Rosetta. Poiché 67P è una tipica cometa a corto periodo – i nuclei bilobati sono la maggior parte, e hanno un’evoluzione orbitale simile a quella di 67P – è ragionevole attendersi che il contributo delle fratture d’origine meccanica descritto da Matonti e colleghi abbia un ruolo nella storia erosiva di tutte le comete.
Rosetta è stata una missione dell’Esa realizzata con un significativo contributo italiano.
Marco Malaspina @mediainaf