Si formano in mare aperto, possono raggiungere altezze considerevoli e, viaggiando su lunghe distanze, la loro azione si può far sentire in luoghi lontani da quello che le ha viste nascere: si tratta di onde oceaniche definite swell, ora protagoniste di un recente studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences.
La ricerca, mirata a indagare gli effetti dell’energia delle swell, si è basata su dati di vari satelliti ed è stata coordinata dal Laboratorio di Oceanografia Fisica e Spaziale di Plouzane (Francia). In particolare, sono stati utilizzati i dati di Swot (Surface Water and Ocean Topography), missione congiunta Nasa-Cnes (Centre National d’Etudes Spatiales), il cui obiettivo è la misurazione del livello dell’acqua presente sul nostro pianeta.
I dati di Swot sono stati combinati con quelli del progetto Sea State, che fa parte dell’iniziativa Climate Change dell’Esa e utilizza informazioni satellitari provenienti da varie missioni di Osservazione della Terra e acquisite lungo vasti archi temporali. I dati in questione sono stati raccolti dai satelliti Saral, Jason-3, alcuni Sentinel (3A, 3B e 6 Michael Freilich), CryoSat e CfoSat.
Analizzando le osservazioni satellitari, i ricercatori sono riusciti a individuare una peculiarità delle swell: si comportano come una sorta di ‘messaggere’ di fenomeni atmosferici intensi e costituiscono una minaccia anche per zone costiere che non vengono raggiunte direttamente dalla burrasca. Un esempio di questo processo si è verificato con la tempesta Eddie del 2024, monitorata da Swot: il satellite è riuscito a cogliere un’onda alta quasi 20 metri, che però ha fatto sentire i suoi effetti a oltre 20mila chilometri di distanza. La sua energia, nell’arco di un paio di settimane, ha viaggiato dal nord dell’Oceano Pacifico fino alla zona tropicale dell’Oceano Atlantico, passando per il Canale di Drake (tra Capo Horn e le Isole Shetland meridionali). Un altro episodio di questo genere si è verificato nel 2014 con la tempesta Hercules, che produsse onde alte anche 23 metri: in quell’occasione, dall’Oceano Atlantico orientale la loro energia provocò ingenti danni a vari paesi costieri distanti, dal Marocco all’Irlanda.
La scoperta, secondo gli studiosi, potrà essere proficuamente utilizzata per migliorare i modelli numerici relativi al moto ondoso in condizioni estreme, correggendo i valori relativi all’energia cinetica. In questo modo potranno essere messe in campo strategie e applicazioni per proteggere le aree costiere e le infrastrutture marine.
Gli autori del paper proseguiranno la loro ricerca per comprendere se l’azione delle swell possa essere in qualche modo associabile al cambiamento climatico, anche se non dovrebbe essere un elemento preponderante.
In alto: il stellite Swot (Crediti: Nasa)
In basso: le onde prodotte dalla tempesta Hercules (Crediti: Esa/Planetary Visions)