Un po’ come uno chef che assaggiando una pietanza sconosciuta cerca di individuarne gli ingredienti e le loro proporzioni, così gli astronomi stanno cercando di scoprire la natura e le proprietà della materia oscura, studiandola indirettamente grazie agli effetti che essa produce. Uno di questi effetti, predetto dalla Teoria delle Relatività Generale, è la deflessione della luce, particolarmente forte ad opera di oggetti molto massicci come gli ammassi di galassie. Questo fenomeno, noto come “lensing gravitazionale” può causare grandi distorsioni della forma osservata delle sorgenti che emettono la luce, o addirittura far sì che queste sorgenti vengano viste più di una volta.
Un team internazionale di ricercatori, guidato da Massimo Meneghetti dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, ritiene che nelle attuali “ricette” che descrivono la materia oscura potrebbe mancare qualche ingrediente: nello studio pubblicato nell’ultimo numero di Science gli scienziati hanno scoperto un’inaspettata e notevole discrepanza tra le osservazioni e i modelli teorici che predicono come la materia oscura dovrebbe essere distribuita negli ammassi di galassie. I risultati dell’indagine mostrano che le concentrazioni di materia, su piccole scale, sono così grandi che gli effetti di lente gravitazionale che producono sono dieci volte più intensi del previsto. Il lavoro si basa su osservazioni di alcuni enormi ammassi di galassie effettuate dal telescopio spaziale Hubble della NASA e dal Very Large Telescope (VLT) dell’ESO, in Cile.
La materia oscura è il collante invisibile che tiene unite le stelle all’interno di una galassia e ne rappresenta la frazione dominante della sua massa. Su scala molto più vasta, è l’impalcatura invisibile del nostro universo che lega le galassie tra loro in lunghe strutture filamentose. La materia oscura non emette, assorbe o riflette la luce: sembra essere totalmente inerte. La presenza della materia oscura è nota solo attraverso l’attrazione gravitazionale che essa esercita sulla materia visibile, oltre che, come detto, sulla luce. L’ipotesi comunemente accettata sulla base di varie evidenze osservative dell’universo su grande scala è che la materia oscura sia costituita da particelle massive, non-collisionali e “fredde”.
Gli ammassi di galassie, le strutture più massicce presenti nell’universo, sono anche i più grandi serbatoi di materia oscura. Gli ammassi sono composti da singole galassie che sono tenute insieme dalla potente attrazione gravitazionale esercitata dalla materia oscura. Ma anche singole galassie negli ammassi contengono a loro volta grandi quantità di materia oscura. La materia oscura negli ammassi è quindi distribuita su varie scale spaziali.
«Gli ammassi di galassie sono laboratori ideali per studiare la materia oscura e la sua interazione con la materia luminosa», dice Massimo Meneghetti, ricercatore dell’INAF di Bologna, primo autore dell’articolo pubblicato su Science. «Abbiamo condotto numerosi e accurati test per confrontare i dati osservativi con simulazioni numeriche che descrivono come la materia dovrebbe essere distribuita negli ammassi di galassie in base al modello di materia oscura fredda. Abbiamo trovato una notevole discrepanza sulla scala delle galassie d’ammasso, che indica che c’è qualche caratteristica dell’Universo reale che non stiamo riproducendo col nostro attuale modello teorico. Potrebbe mancare qualche elemento fisico chiave nelle simulazioni che abbiamo utilizzato o potremmo non aver compreso la vera natura della materia oscura», prosegue Meneghetti.
La distribuzione dettagliata della materia oscura negli ammassi di galassie viene tracciata grazie agli effetti di lente gravitazionale che essi producono, amplificando e deflettendo la luce proveniente da oggetti celesti situati dietro di essi rispetto alla nostra linea di vista. Più è elevata la concentrazione di materia oscura in un ammasso, maggiore è la distorsione delle immagini delle galassie di sfondo. La presenza di agglomerati di materia oscura su scala ridotta associati alle singole galassie che compongono gli ammassi aumenta il livello di distorsione. In un certo senso, l’ammasso di galassie agisce come una lente su larga scala che ha molte lenti più piccole incorporate al suo interno.
Le osservazioni di Hubble hanno permesso di individuare decine di galassie lontane che subiscono gli effetti di lensing da parte della materia distribuita su più grande scala negli ammassi in esame. Con grande sorpresa del team, diverse di queste sorgenti sono fortemente deformate o sdoppiate in immagini multiple anche intorno a singole galassie d’ammasso. I ricercatori ritengono che questi effetti di lensing su piccola scala siano dovuti alla presenza di forti concentrazioni di matteria oscura associate a queste galassie.
Per confermare questa ipotesi, il team ha utilizzato una nuova tecnica per ottenere la mappatura della distribuzione di materia negli ammassi. I ricercatori hanno usato lo spettrografo MUSE del VLT per misurare la velocità con la quale le stelle si muovono in alcune delle galassie d’ammasso e l’hanno utilizzata per misurare la loro massa. Hanno quindi combinato queste misure con gli effetti di lensing osservati nelle immagini di HST.
Le ricostruzioni così ottenute mostrano la presenza di aloni diffusi di materia oscura, simili a massicci montuosi, con sovrapposti aguzzi pinnacoli, che rappresentano la materia concentrata nelle galassie. La qualità dei dati dello studio ha permesso al team di verificare se questi paesaggi nell’universo osservato corrispondono a ciò che la teoria prevede nel caso di ammassi simili per dimensioni e distanze. Per questo confronto sono state utilizzate avanzate simulazioni cosmologiche ad alta risoluzione. Gli ammassi in queste simulazioni non mostrano lo stesso livello di concentrazione di materia sulle scale più piccole e non sono in grado di spiegare il numero di effetti di lensing scoperti intorno alle galassie osservate.
«Questo lavoro costituisce un salto nella conoscenza della formazione delle strutture nell’Universo e presenta una sfida ai modelli cosmologici» conclude Elena Rasia, dell’INAF di Trieste.
Lo studio è stato pubblicato oggi sul sito web della rivista Science nell’articolo An excess of small-scale gravitational lenses observed in galaxy clusters