Replicare la realtà, costruendo immagini tridimensionali come se fossero vere. È l’arte dell’olografia, che negli ultimi anni ha raggiunto alti livelli grazie allo sviluppo di nuove tecnologie. E se gli oggetti degli ologrammi fossero interi corpi celesti, come i buchi neri? È la proposta di un team di ricerca giapponese, che sta mettendo a punto un metodo originale per comprendere meglio questi misteriosi oggetti cosmici.
Recentemente, la comunità scientifica è stata folgorata dal sensazionale scatto che per la prima volta ritraeva un buco nero. L’immagine, realizzata grazie all’osservazione simultanea di otto radiotelescopi del progetto Event Horizon Telescope, mostra un anello brillante che corrisponde all’ombra del buco nero al centro di m87, un’enorme galassia a circa 55 milioni di anni luce da noi.
Purtroppo però la nostra comprensione dei famigerati black holes rimane ancora incompleta. Il motivo principale è che la teoria della relatività generale, utilizzata per descrivere il comportamento macroscopico di stelle e galassie, non è attualmente compatibile con la meccanica quantistica, che invece spiega come l’universo funziona nella scala dell’infinitamente piccolo. E dal momento che i buchi neri hanno per definizione un’enorme massa compressa in uno spazio minuscolo, sarebbe necessario riconciliare queste due teorie per comprenderne davvero la fisica.
Secondo alcuni scienziati, una chiave possibile per risolvere questo enigma sta nella teoria delle stringhe, secondo cui tutta la materia è fatta da minuscole stringhe vibranti. Una delle diverse versioni di questa teoria prevede una corrispondenza tra le leggi della fisica che percepiamo nelle quattro dimensioni a noi familiari (tre dimensioni spaziali e una temporale) e le stringhe in uno spazio dotato di una dimensione aggiuntiva. Questa corrispondenza si può chiamare “dualità olografica”, perché ricorda una struttura olografica bidimensionale che racchiude in sè tutte le informazioni di un oggetto 3D.
Nella nuova ricerca giapponese, pubblicata su Physical Review Letters, gli scienziati utilizzano questo concetto per mostrare che la superficie di una sfera, di due dimensioni, può essere utilizzata per modellare un buco nero in tre dimensioni. Ed è qui che entra in gioco l’olografia. In questa configurazione, la luce emanata da una sorgente in un punto della sfera viene misurata in un altro punto: il risultato dovrebbe apparire proprio come un ologramma. «L’immagine olografica di un buco nero simulato – commenta Koji Hashimoto dell’Università di Osaka e leader dello studio – se osservata da questa prospettiva, può servire come porta d’ingresso nel mondo della gravità quantistica.»