I primi abitanti della Luna 

La notizia sta rimbalzando da un sito all’altro: il nostro satellite forse ospita quelli che tecnicamente si possono considerare i primi inquilini lunari. Nessuna scoperta aliena, ma un carico inviato sulla Luna dall’uomo: si tratta di qualche migliaio di tardigradi, animaletti lunghi meno di un millimetro il cui aspetto ricorda vagamente un orsetto. E infatti gli inglesi li hanno ribattezzati waterbears, “orsi d’acqua”. Già protagonisti di diversi meme sul web, i tardigradi stanno ora facendo il giro del mondo grazie al sospetto che alcuni di questi esemplari si possano trovare sulla Luna. Ma come ci sono arrivati? Per rispondere, occorre tornare a qualche mese fa.

Beresheet

Lo scorso 21 febbraio, a bordo di un razzo Falcon 9 di SpaceX, è partito il primo lander privato progettato per tentare l’allunaggio. Beresheet, questo il nome del veicolo costruito dall’azienda israeliana SpaceIL, dopo un lungo viaggio e una serie di manovre di assestamento è entrato nell’orbita lunare il 4 aprile. A quel punto il successo sembrava quasi sicuro. “Allacciatevi le cinture, stiamo per atterrare sulla Luna”: il titolo della diretta YouTube di SpaceIL già annunciava l’imminente allunaggio previsto per l’11 aprile. Ma proprio durante gli ultimissimi minuti della discesa qualcosa è andato storto. Un guasto al motore principale ha fatto perdere i contatti con il centro di controllo, e poco dopo Beresheet si è schiantato sulla superficie lunare.

L’eredità della missione

E i tardigradi che cosa c’entrano? Ciò che lo scorso aprile non molti sapevano, è che a bordo di Beresheet c’era un carico molto particolare. Opera dell’Arch Mission Foundation (Amf), organizzazione no profit che ha come obiettivo la creazione di veri e propri archivi terrestri. L’idea è preservare le opere umane per le generazioni future, ed eventualmente farle conoscere a specie aliene: ecco perché tra i progetti dell’Amf c’è l’invio nello spazio di dispositivi che contengano il maggior numero di informazioni sulla nostra civiltà. Nova Spivack, fondatore dell’organizzazione, ha proposto al team israeliano di inserire su Beresheet uno dei suoi dischi. In apparenza questi oggetti sembrano normali dvd, ma non richiedono un lettore digitale perché sono analogici e contengono migliaia di informazioni incise a livello microscopico su sottilissimi strati di vetro e nichel. E così Beresheet ha ricevuto un archivio contenente l’intera raccolta Wikipedia britannica, migliaia di classici della letteratura internazionale e vari testi di lingua e grammatica. Inizialmente il carico doveva esaurirsi qui, ma poche settimane prima della consegna Spivack ha cambiato idea. Amf ha quindi aggiunto alla sua “libreria lunare” uno strato di resina epossidica, dove ha inserito campioni di sangue e Dna umano, e alcune migliaia dei protagonisti di questa storia: i tardigradi, che dopo essere stati disidratati sono stati posizionati (oltre che nel disco) anche su un nastro adesivo utilizzato per imballare e proteggere meglio il prezioso carico.

I possibili “sopravvissuti”

Dopo il fallimento della missione Beresheet, Spivack ha messo insieme gli esperti dell’Arm per capire se la libreria lunare potesse essere sopravvissuta allo schianto della navicella. Ricostruita la dinamica dell’incidente, la risposta sembra essere positiva: il carico del lander forse è arrivato sulla Luna integro o quasi. Con tanto di tardigradi a bordo, che quindi potrebbero essersi salvati. «I tardigradi inviati nella forma disseccata, e quindi metabolicamente inattiva – commenta Daniela Billi, leader del Laboratorio di Astrobiologia e Biologia Molecolare dei Cianobatteri all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata – hanno tutte le possibilità di resistere anche sulla Luna. Non ci sono quindi ragioni scientifiche provate per affermare che questi organismi siano morti. Bisognerebbe però conoscere meglio i dettagli della missione: diversamente dai progetti selezionati dalle agenzie pubbliche, i progetti privati spesso non sono noti alla comunità scientifica».

Quello che non sappiamo

In effetti, i tardigradi dell’Arch Mission Foundation sono ancora in parte avvolti da una nube di mistero. La presenza stessa di questo carico biologico su Beresheet non era nota fino a pochi giorni fa. L’annuncio ufficiale risale a un tweet del 6 agosto pubblicato dall’account dell’Amf, che diffonde un’intervista rilasciata da Nova Spivack a Wired con il commento: «Il vault 23 è stato rilevato. La libreria lunare contiene molti segreti». Il riferimento è a uno dei componenti – chiamati appunto vault – del disco inviato sulla Luna. Il numero 23 sarebbe proprio quello dedicato ai tardigradi: da quel momento in poi, la notizia dei primi possibili inquilini lunari è diventata di dominio pubblico. Ma attenzione. Non dobbiamo pensare a una sorta di colonizzazione del nostro satellite, come qualcuno ha ipotizzato. «Ammesso che i tardigradi abbiano resistito all’impatto – spiega Lorena Rebecchi, leader del Laboratorio di Zoologia Evoluzionistica dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia – in questo momento dovrebbero trovarsi in uno stato di quiescenza: non mangiano, non si muovono e non possono riprodursi. È una condizione chiamata anidrobiosi, che consente a questi animali di mantenere la possibilità di tornare metabolicamente attivi solo con l’aggiunta di acqua allo stato liquido». Un ingrediente che sulla Luna non c’è, e quindi è impossibile pensare a un risveglio – e tanto meno a un’invasione – dei tardigradi. Inoltre non sappiamo neppure se questi organismi, che in laboratorio resistono in forma disidratata da 10 a 20 anni, abbiano davvero modo di restare vitali nel tempo. «Non conosciamo i dettagli scientifici di come sono stati preparati i tardigradi – prosegue Rebecchi – e quindi è difficile dire se potranno risvegliarsi in futuro. La resina epossidica di solito in laboratorio viene utilizzata per preparare gli animali per studi morfologici e li rende non più estraibili. Quindi bisognerebbe conoscere meglio il protocollo utilizzato per disidratare e poi inserire nella resina questi animali». 

Il valore scientifico

Nessuna contaminazione del nostro satellite o rischio di alterazione dell’ambiente lunare, dunque.  «La Luna è di per sé inabitabile e inadatta alla vita come noi la conosciamo – dice Daniela Billi – e quindi non ci sono proprio le condizioni per riportare i tardigradi in vita e farli colonizzare questo corpo celeste». Eppure qualche speranza di un futuro valore scientifico della missione rimane. «Dal punto di vista dell’astrobiologia – continua Billi –  la Luna è il luogo oltre la Stazione spaziale internazionale dove ci interessa testare i limiti di sopravvivenza di organismi utilizzati fino ad ora in bassa orbita terrestre. Se mai fosse possibile recuperare e reidratare questi tardigradi, avremmo modo di valutare la loro capacità di riaccendere il metabolismo e riparare eventuali danni accumulati nel corso degli anni. Questo sarebbe un dato scientifico interessante».

I precedenti

Anche se è la prima volta che sentiamo parlare di tardigradi lunari, questi organismi non sono del tutto a digiuno di spazio. Proprio per la loro incredibile resistenza a stress chimico-fisici estremi, sono già stati utilizzati per esperimenti in microgravità. Nel 2007, circa 3000 tardigradi hanno viaggiato nello spazio nell’ambito della missione orbitale dell’Esa Foton-M3. «Ci sono stati due esperimenti principali – racconta Rebecchi – uno gestito dal mio gruppo di ricerca, con tardigradi rimasti dentro alla capsula, e uno gestito dal gruppo svedese coordinato da Ingemar Jönsson, che invece ha esposto gli animali alle radiazioni all’esterno». Lorena Rebecchi è stata anche responsabile scientifica dell’esperimento Tardkiss, finanziato dall’Agenzia spaziale italiana nell’ambito della missione Dama, partita nel 2011 con l’ultimo volo Shuttle a cui ha partecipato anche l’astronauta italiano Roberto Vittori.  «Nell’ambito di Tadkiss – spiega Rebecchi – abbiamo esposto alcuni tardigradi disidratati all’ambiente in microgravità della Iss. I tardigradi sono stati poi reidratati una volta rientrati a Terra, con un buon tasso di sopravvivenza. Abbiamo valutato la loro capacità di ritorno alla vita attiva, l’eventuale presenza di danni al Dna e la loro capacità riproduttiva dopo l’esposizione alle radiazioni cosmiche».

Il futuro

I microscopici “orsi d’acqua” continueranno probabilmente a far parlare di sé. Già ci sono in programma esperimenti per mettere nuovamente alla prova la loro resistenza negli ambienti estremi. «Tra i futuri esperimenti selezionati dall’Esa e che utilizzeranno la facility Expo costruita da Kaiser Italia – dice Daniela Billi – uno riguarda appunto l’esposizione alla bassa orbita terrestre di rotiferi, invertebrati molti simili ai tardigradi, per la loro capacità di sopravvivere alla disidratazione». E intanto si sente parlare sempre di più dei futuri progetti di colonizzazione marziana, anche se con i carichi biologici sul mondo rosso si dovrà fare più attenzione rispetto alla Luna. «L’idea di mandare microrganismi su Marte – conclude la ricercatrice –  è prevalentemente legata al supporto alla vita degli astronauti e ai sistemi biorigenerativi. In questo caso infatti saranno necessarie strategie di contenimento per ridurre il rischio di contaminazione dell’ambiente marziano. Sarà fondamentale non alterarlo, per non influenzare la ricerca di forme passate o presenti di vita in quelle zone marziane considerate di elevata rilevanza astrobiologica».