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Il James Webb Space Telescope ha individuato uno dei più antichi e misteriosi buchi neri supermassicci mai osservati, aprendo nuove ipotesi sull’origine di questi colossi cosmici nei primissimi momenti dopo il Big Bang.
Osservando il centro di una galassia risalente a 13 miliardi di anni fa, gli astronomi hanno scoperto un buco nero con una massa pari a 10 milioni di volte quella del Sole, che hanno catalogato come A2744-Qso1 (abbreviato: Qso1).
Ciò che ha sopreso gli studiosi non è soltanto l’enorme massa del buco nero, ma il fatto che essa rappresenti il 10% della massa totale della galassia che lo ospita, una proporzione estremamente elevata se confrontata con i buchi neri nelle galassie odierne, che raramente superano lo 0,005%.
La galassia che ospita Qso1 è comparsa quando l’Universo aveva appena 700 milioni di anni ed è povera di metalli, cioè composta per lo più da idrogeno e elio. Di fatto, è una delle galassie meno evolute chimicamentre tra quelle che abbiamo scoperto. Ciò suggerisce che in essa si siano formate pochissime stelle e che si siano verificate pochissime esplosioni di supernova.
I modelli standard prevedono che i buchi neri supermassicci nascano dalla fusione di buchi neri più piccoli, poche decine di masse solari, nati a loro volta dalla morte di stelle massive. In seguito questi corpi crescono aggregando gas, ma è un processo che richiede un tempo che l’Universo, nei suoi primi 700 milioni di anni, semplicemente non ha avuto.
«Questa è una scoperta importante, ci dice che buchi neri molto massicci possono crescere rapidamente anche in mancanza di un’intensa formazione stellare», spiega Roberto Maiolino, astrofisico al Cavendish Laboratory dell’Università di Cambridge e prima firma dello studio legato a questa scoperta, proposto alla rivista Nature e attualmente in preprint su arXiv.
Qso1 infatti non può essersi formato dall’unione di buchi neri più piccoli, nati a loro volta dall’esplosione di supernove. Grazie a questa galassia potremmo finalmente capire come abbiano fatto i buchi neri supermassicci ad esistere nelle prime fasi dell’evoluzione dell’Universo. Da quando il telescopio James Webb ha iniziato la sua attività esplorativa, infatti, ne sono stati scoperti vari, tutti apparsi entro il primo miliardo di anni dopo il Big Bang.
Le impressionanti dimensioni di Qso1, non possono essere il prodotto di una rapida aggregazione anche per un’altra ragione, che chiarisce la ricercatrice Hannah Uebler, sempre dell’Università di Cambridge: «Esiste un limite teorico alla crescita per aggregazione, fissato dalla cosiddetta soglia di Eddington. Se la pressione della radiazione generata dall’accrescimento supera la forza gravitazionale del buco nero, la crescita (teoricamente) si arresta.»
Raggiunto il limite di Eddington, il buco nero smette di inghiottire materia perché la pressione della radiazione, per lo più in ultravioletto e raggi X, la respinge.
Il James Webb ha trovato qualcosa che, in base alle attuali teorie, non poteva esistere in quella fase evolutiva del cosmo. Gli scienziati stanno quindi formulando ipotesi più radicali. Una di queste è il cosiddetto collasso diretto: in condizioni particolari, nubi di gas incontaminate potrebbero collassare direttamente in un buco nero massiccio, fino a 100.000 masse solari, senza passare per la fase stellare.
Un’altra teoria prevede che le regioni centrali delle prime galassie fossero così dense da favorire la rapida fusione di stelle e resti stellari, creando buchi neri intermedi di diverse migliaia di masse solari.
Si propone anche l’idea che i primi buchi neri potrebbero aver superato brevemente il limite di Eddington, facendo crescere in modo ‘sregolato’ e ultra-efficiente anche un piccolo un buco nero stellare.
Tuttavia, Maiolino puntualizza che nessuna di queste spiegazioni, nelle simulazioni, riesce a riprodurre simultaneamente le tre caratteristiche di QSO1: l’alta massa del buco nero, il rapporto massa buco nero/galassia estremamente alto, e la bassissima presenza di metalli.
«Nello scenario del collasso diretto – secondo Maiolino – il buco nero dovrebbe trovarsi vicino a una regione attiva dove le stelle si sono formate vigorosamente. Il gas proveniente da queste regioni attive vicine finirebbe inevitabilmente per inquinare rapidamente anche l’ambiente circostante del buco nero appena formato, mentre cresce. Anche lo scenario dell’accrescimento oltre il limite di Eddington presenta problemi simili. Le grandi quantità di gas necessarie ad aumentare l’accrescimento porterebbero inevitabilmente anche alla formazione di molte stelle, che arricchirebbero rapidamente il mezzo circostante con metalli.»
Esiste però anche un’altra ipotesi per spiegare questo mistero, che prende in causa i buchi neri primordiali, oggetti ipotetici formatisi nei primissimi istanti dopo il Big Bang a causa di fluttuazioni di densità estreme, ben prima della nascita delle prime stelle e galassie.
«I buchi neri primordiali potrebbero nascere già molto massicci, le teorie prevedono che siano raggruppati e quindi possono fondersi velocemente e crescere ancor prima di aggregare gas», spiega la dottoressa Uebler.
Seguendo questa ipotesi, i buchi neri primordiali avrebbero agito come ‘semi‘ intorno ai quali si sono poi formate le galassie stesse. E il gas ancora vergine (privo di metalli) avrebbe alimentato la crescita dei buchi neri prima che la formazione stellare diventasse dominante.
Una recente simulazione, guidata dal dottor Lewis Prole dell’Università di Maynooth, in Irlanda, mostra come un buco nero primordiale di massa intermedia, nato subito dopo il Big Bang, potrebbe crescere e fondersi abbastanza velocemente fino a diventare supermassiccio entro il primo miliardo di anni. Secondo Prole, questa potrebbe essere la ragione all’origine dei buchi neri osservati dal Jwst di cui non si riesce a spiegare l’esistenza.
Nonostante il fascino dell’ipotesi dei buchi primordiali, gli stessi ricercatori invitano comunque alla prudenza perché anche queste teorie hanno delle limitazioni e non spiegano ancora tutti i dati in modo esaustivo: «E’ importante notare che lo scenario dei buchi neri primordiali presenta problemi e non riproduce perfettamente le osservazioni», conclude Maiolino. Per lo scienziato ci sono due passi da fare importanti: il primo è capire quante stelle ci sono effettivamente attorno a Qso1, se sono poche o assenti si rafforzerebbe l’idea che il buco nero si sia prodotto in un ambiente privo di formazione stellare; il secondo è continuare a scrutare il cosmo, andando il più possibile indietro nel tempo, per scoprire e poi studiare i buchi neri primordiali.
La scoperta di QSO1 è una sfida diretta alle teorie standard sull’evoluzione cosmica. Se la sua origine risale davvero a un buco nero primordiale, potremmo essere alle porte di una rivoluzione nella nostra comprensione dell’inizio del tempo, dello sviluppo e della struttura dell’Universo.
Foto: Una ripresa del James Webb Telescope che mostra galassie e buchi neri lontanissimi, esistiti quando l’Universo aveva meno di un miliardo di anni
Crediti: Nasa, Esa, Csa, S. Finklestein