Per ora i test sono effettuati non troppo distanti da noi, sulla Stazione spaziale internazionale, a soli quattrocento chilometri dalla Terra. Ma i risultati fanno sperare per le future colonie umane ben più distanti della Iss.
Il banco di prova è la piattaforma MISSE Flight Facility, installata sulla Iss per conto di Aegis Aerospace, una società statunitense con sede a Houston, che ha puntato a combinazioni integrate di esperimenti in orbita.
Lo spazio può sembrare vuoto, ma contiene temperature estreme, alti livelli di radiazione di fondo, micrometeoroidi, raggi solari non filtrati ma soprattutto esposizione all’ossigeno atomico (AO) e altre particelle cariche.
La reazione ad un ambiente diversamente terrestre di materiali o organismi monocellulari innesca in prima battuta una sfida: solo i migliori resistono.
Ma non si tratta solo di osservare la capacità di resistenza. Il programma della MISSE Flight Facility prevede l’osservazione di effetti combinati che possono dare risultati diversi se testati individualmente. Questo vale sulla Terra ma a maggior ragione nello spazio.
Il MISSE-FF dispone di fotocamere ad alta definizione che scattano foto periodiche di tutti gli oggetti sui suoi deck di esposizione e sensori per registrare condizioni ambientali come temperatura, radiazioni ed esposizione ai raggi UV e AO. Tutti gli articoli di prova vengono riportati a terra anche per l’analisi post-volo.
Gli scienziati della NASA hanno effettuato più missioni sul MISSE-FF per analizzare gli effetti dell’ossigeno atomico (AO) e delle radiazioni su centinaia di campioni e dispositivi.
MISSE-9, ad esempio, ha valutato come polimeri, compositi e rivestimenti hanno gestito l’esposizione allo spazio. Per questa e altre missioni MISSE, Kim de Groh, ingegnere ricercatore sui materiali senior presso il Glenn Research Center della NASA a Cleveland, ha ottenuto risultati per due effetti primari di degrado ambientale. Il primo è la velocità con cui un materiale si erode a causa dell’interazione con l’ossigeno atomico, dove si riscontra la perdita di massa nei materiali esposti nello spazio e si calcola la resa dell’erosione da AO.
La seconda è osservarne la fragilità o la resistenza, dopo cicli di esposizione al surriscaldamento in orbita di uno o più parti di componenti un veicolo spaziali.
Anche sul fronte della biologia molecolare l’esposizione di biofilm, biomolecole ed estremofili sulla ISS hanno permesso a team di scienziati di osservare modifiche simulando condizioni simili a quelle di Marte.
Gli estremofili sono organismi che possono vivere in condizioni intollerabili o addirittura letali per la maggior parte delle forme di vita. Aumentarne l’autonomia è fondamentale per le future missioni che viaggiano più lontano dalla Terra e non possono fare affidamento su missioni di rifornimento.
Questi esperimenti si sono resi possibili grazie alla struttura EXPOSE-R-2 dell’Agenzia Spaziale Europea che offre agli scienziati l’opportunità di testare campioni nello spazio. Con BOSS e BIOMEX, incluse in EXPOSE-R-2, Daniela Billi, professoressa nel dipartimento di biologia dell’Università di Roma Tor Vergata ha dimostrato che i cianobatteri possono utilizzare le risorse disponibili per fissare il carbonio (convertire l’anidride carbonica atmosferica in carboidrati) e produrre ossigeno.
Durante l’esposizione sulla stazione spaziale, le cellule essiccate della Croocccidiopsis hanno ricevuto una dose di radiazioni ionizzanti equivalente a un viaggio su Marte. La loro risposta suggerisce che i batteri potrebbero essere trasportati sul pianeta e reidratati su richiesta. Le cellule essiccate sono state anche mescolate con un simulante di regolite o polvere marziana e hanno ricevuto una dose UV corrispondente a circa 4 ore di esposizione sulla superficie marziana.
«Lo scopo di questo studio era verificare se questo cianobatterio potesse riparare i danni al DNA accumulati durante il viaggio su Marte e l’esposizione a condizioni non attenuate di Marte.», afferma Billi.
Un’altra indagine condotta su EXPOSE-R-2 ha trovato segni di vita nei funghi contenenti melanina dopo 16 mesi di esposizione allo spazio. Il pigmento di melanina fungina sembra svolgere un ruolo nella resistenza cellulare a condizioni estreme, comprese le radiazioni, e potrebbe avere un potenziale per l’uso come protezione dalle radiazioni in future missioni nello spazio profondo. Nell’esperimento, uno strato sottile di un ceppo di fungo melanizzato ha ridotto i livelli di radiazione di quasi il 2% e potenzialmente fino al 5%.
Le ricerche sono state pubblicate lo scorso aprile e tra gli autori anche Claudia Pacelli, ricercatrice dell’ASI.
Non solo nei funghi si sono ottenuti risultati incoraggianti. Su 40 specie di animali e piante multicellulari per l’indagine EXPOSE-R IBMP esposti e osservati nei diversi cicli di riposo ci sono state novità. Molti di questi organismi sono rimasti vitali e hanno persino completato i cicli di vita e la riproduzione per diverse generazioni.
I futuri viaggi su altri pianeti potrebbero portare con sé forme di vita terrestre da utilizzare nei sistemi ecologici di supporto vitale e per creare ecosistemi artificiali.
In apertura: EXPOSE-R2 hardware di volo con cellule essiccate di Chroococchidiopsis sp. 029 mescolato con l’analogo della regolite marziana per simulare condizioni simili a Marte per l’esperimento BIOMEX sulla risposta allo spazio di funghi contenenti melanina. Dopo l’esposizione, le cellule sono state riportate sulla Terra e reidratate per il sequenziamento del DNA. Credito: Roscosmos/ESA