Come quasi tutte le stelle, il nostro Sole è un luogo decisamente bollente. Se al centro la temperatura raggiunge circa 15 milioni di gradi Celsius, anche in superficie non si scherza: secondo gli scienziati, qui ci aggiriamo intorno ai 5.500 gradi. Un calore che si disperde nello spazio circostante, in particolare attraverso la corona – la parte più esterna dell’atmosfera solare, che si estende per milioni di chilometri.

Gli astronomi pensano che le elevate temperature della corona dipendano dai cosiddetti nanoflare, piccoli brillamenti che si verificano direttamente in questa zona dell’atmosfera del Sole. Il primo a ipotizzarli è stato Eugene Parker nel 1972, l’astrofisico a cui la Nasa ha dedicato l’omonima Parker Solar Probe, lanciata nel 2018 e ora in orbita attorno alla nostra stella.

Eppure questi fenomeni, a lungo discussi dal punto di vista teorico, non sono mai stati osservati: fino a oggi. Un nuovo studio pubblicato su Nature Astronomy e guidato dall’Università del Colorado individua per la prima volta alcuni dei nanoflare così a lungo cercati, catturandone l’intero ciclo di vita: dalle origini luminose fino alla violenta scomparsa.

Gli scienziati hanno utilizzato i dati raccolti dal satellite Iris della Nasa. In realtà l’obiettivo iniziale era l’analisi di presunti minuscoli loop luminosi al di sotto della corona. Ma andando più nel dettaglio, questi anelli brillanti si sono rivelati molto più caldi del previsto, milioni di gradi in più rispetto alle zone circostanti. Anche la distribuzione del calore era insolita, e sembrava dipendere da un meccanismo di riconnessione magnetica – lo stesso responsabile dei brillamenti solari più grandi. Dopo una serie di simulazioni, gli scienziati hanno concluso di aver effettivamente analizzato mini brillamenti solari. Nell’immagine, che mostra un’elaborazione dei dati di Iris, ogni quadrato è uno zoom della regione selezionata nel quadrato alla sua sinistra: quindi a destra possiamo vedere il primo ritratto mai ottenuto di un nanoflare.