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Buchi neri come ologrammi

Poco più di un anno fa, la comunità scientifica è stata folgorata da quella che molti hanno definito la foto del secolo: la prima immagine mai ottenuta di un buco nero. Lo scatto, realizzato grazie all’osservazione simultanea di otto radiotelescopi del progetto Event Horizon Telescope, mostra un anello brillante che corrisponde all’ombra del buco nero al centro di m87, un’enorme galassia a circa 55 milioni di anni luce da noi. Da quando quella foto ha fatto il giro del mondo, i misteriosi buchi neri hanno assunto un (possibile) volto. Dando per la prima volta un profilo all’enigmatico orizzonte degli eventi, ovvero la linea dello spazio-tempo oltre la quale nulla può uscire – neanche la luce.

Ma se il vero ritratto di un buco nero fosse in realtà molto più complesso? È quanto ipotizzato da due ricercatori italiani, secondo cui i famigerati black holes appaiono come non sono. Proprio come gli ologrammi: dove tutte le informazioni sono ammassate in una superficie a due dimensioni capace di riprodurre un’immagine 3D.

Lo studio, realizzato da Sissa, Ictp e Infn e pubblicato su Physical Review X, mette insieme due teorie considerate da sempre discordanti. Da un lato la relatività di Einstein, che concepisce i buchi neri in modo molto simile alla famosa fotografia di m87: sferici, lisci, tridimensionali. Oggetti semplici. Dall’altro la fisica quantistica, secondo cui i buchi neri sono invece ricchi di informazioni e caratterizzati da una grande entropia. Oggetti estremamente complessi.

Secondo Francesco Benini e Paolo Milan, autori del nuovo studio, l’apparente contraddizione si può risolvere pensando appunto ai buchi neri come ologrammi. In questo modo è possibile “salvare” l’approccio quantistico senza andare contro alla relatività generale. La teoria del principio oleografico applicata dai due ricercatori ha quasi trent’anni, ma può aiutare a rendere più comprensibili le misteriose proprietà dei buchi neri.

«In base a questo principio – spiegano gli scienziati – il comportamento della gravità in una determinata regione di spazio si può descrivere in termini di un diverso sistema, che vive solo lungo il bordo di quella regione e quindi in una dimensione in meno».

Questo “diverso sistema” è appunto l’immagine olografica, dove la gravità non compare esplicitamente. E così in pratica si può descrivere la gravità usando un linguaggio che non contenga la gravità, evitando frizioni con la meccanica quantistica.

Non è la prima volta che le tecniche dell’olografia vengono applicate allo studio dei buchi neri. Uno studio giapponese, ad esempio, l’anno scorso ha utilizzato questo concetto per mostrare che la superficie di una sfera di due dimensioni può essere utilizzata per modellare un buco nero in tre dimensioni (ne avevamo parlato qui). In questa configurazione, la luce emanata da una sorgente in un punto della sfera veniva misurata in un altro punto: il risultato appariva proprio come un ologramma.

Il nuovo studio si spinge ancora oltre, perché arriva a ipotizzare che i buchi neri si possano identificare con gli ologrammi: la loro immagine tridimensionale sarebbe in realtà il risultato apparente a partire da una superficie bidimensionale trasformata.

Ma resta ancora molto da fare. Nella nuova era dell’astronomia multimessaggera, nata con la prima osservazione delle onde gravitazionali, è possibile immaginare un futuro dove la teoria dei buchi neri come ologrammi possa essere messa alla prova sperimentalmente. «Il nostro studio – concludono i ricercatori – è solo il primo passo verso una comprensione più profonda di questi corpi cosmici e delle proprietà che li caratterizzano quando la meccanica quantistica si incrocia con la relatività generale».

Giulia Bonelli: Giornalista scientifica