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Culle planetarie in posa

Sembra un quadro pop art, la nuova immagine immortalata dal Very Large Telescope Interferometer dell’Eso che ritrae gli anelli di polvere e gas in formazione attorno alle stelle. Cinque colonne, tre righe, quindici riquadri che incorniciano altrettanti dischi protoplanetari a centinaia di anni luce da noi. La fotografia dell’Eso, oltre a rendere perfettamente il fascino degli angoli del cosmo che si trasformano in future culle planetarie, aiuta a comprendere i meccanismi di formazione dei nuovi mondi.

I dischi protoplanetari di solito nascono insieme alle stelle che circondano. I granelli di polvere contenuti in questi dischi possono aggregarsi fino a formare corpi celesti più grandi, che poi si trasformano nei pianeti. Gli astronomi pensano che i pianeti rocciosi come il nostro abbiano origine nelle regioni più interne dei dischi protoplanetari, meno di 5 unità astronomiche (cinque volte la distanza Terra-Sole) dalla stella madre.

Fino ad oggi i vari telescopi non sono riusciti a immortalare nel dettaglio queste zone dei dischi protoplanetari dove nascono i pianeti rocciosi. Ora le nuove immagini diffuse dall’Eso ricostruiscono le culle planetarie con una precisione senza precedenti. I dati raccolti dal Vlti sono stati elaborati da un team internazionale di astronomi guidato dall’Università di Loviano in Belgio. Gli scienziati hanno utilizzato una tecnica innovativa, simile a quella che lo scorso anno ha permesso di ottenere la prima foto di un buco nero. Come nel caso del cuore di Messier 87, i dischi protoplanetari non potevano essere immortalati in dettaglio con un’osservazione diretta, a causa dell’elevata luminosità delle stelle madri.

Grazie allo strumento Pionier dell’Eso, il team di ricerca ha analizzato con l’interferometria a infrarossi la luce raccolta dai quattro telescopi del Vlti e l’ha poi rielaborata con una tecnica matematica. «In questo modo abbiamo rimosso la luce della stella, aumentando il livello di dettaglio con cui potevamo osservare il disco», spiega Jacques Kluska, prima firma dello studio pubblicato su Astronomy & Astrophysics. Ecco che questa tecnica ha permesso di svelare alcune differenze fondamentali tra i 15 dischi protoplanetari osservati. Ad esempio, nell’immagine in basso si vede che alcuni punti sono più o meno luminosi: questo, secondo gli scienziati, punta ai luoghi di formazione planetaria.

Nei prossimi mesi gli scienziati continueranno ad analizzare questi dati, per comprendere meglio l’origine dei mondi rocciosi simili al nostro. Il quadro cosmico dell’Eso apre infatti una nuova finestra sulla storia dell’universo. «Il dettaglio che abbiamo raggiunto è impressionante, – commenta Jean-Philippe Berger, responsabile dello strumento Pionier – come se potessimo distinguere un capello a 10 chilometri di distanza o vedere un uomo sulla Luna. Combinare le tecniche dell’interferometria a infrarossi con i modelli matematici ci permette finalmente di trasformare i risultati di queste osservazioni in immagini».

I dischi protoplanetari attorno alle stelle R CrA (sinistra) e HD45677 (right), catturati dal Very Large Telescope Interferometer dell’Eso. Le orbite della Terra e di Giove sono aggiunte come riferimento, così come le stelle – la cui luce è stata filtrata per ottenere un’immagine più dettagliata del disco. Crediti: Jacques Kluska et al.

Giulia Bonelli: Giornalista scientifica