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E’ stato pubblicato in questi giorni il 35° rapporto ‘State of the Climate‘, una stima sulle condizioni del clima terrestre diffuso dal 2011 come supplemento al Bulletin of the American Meteorological Society (Bams) e ampiamente considerato la valutazione più autorevole sul clima mondiale. Il rapporto si basa sui valori e osservazioni recuperati da satelliti, stazioni meteorologiche, boe oceaniche e ricerche sul campo, per offrire una panoramica completa dei ‘segni vitali’ del pianeta e un archivio affidabile sui cambiamenti climatici in corso.
Un apporto fondamentale a quest’evidenza è stato fornito dai preziosi dati satellitari dell’Iniziativa per il Cambiamento Climatico, un programma avviato dall’Agenzia Spaziale Europea oltre un decennio fa per trasformare le osservazioni raccolte dagli strumenti scientifici posti nello Spazio in serie coerenti e di lungo periodo su variabili chiave, come il livello del mare, il ghiaccio marino, il permafrost, l’umidità del suolo e lo stato dell’ozono.
Tra le osservazioni più significative del rapporto State of the Climate, spiccano quelle sull’umidità del suolo, che nel corso dell’anno passato ha mostrato forti contrasti: nel Sahel i valori sono stati doppi rispetto alla norma, mentre gran parte delle Americhe ha affrontato siccità estreme, soprattutto gli Stati Uniti che ne sono stati colpiti per quasi metà del territorio. Ancora più allarmanti le anomalie registrate nei laghi: oltre la metà di quelli monitorati ha mostrato temperature superficiali superiori di almeno mezzo grado se paragonate con la media 1995–2020, confermando un impatto crescente dei cambiamenti climatici sugli ecosistemi di acqua dolce. Dal permafrost arrivano altri segnali preoccupanti: in Asia centrale i ghiacciai rocciosi hanno accelerato la loro velocità di movimento in modo costante dagli anni Cinquanta, con un’accelerazione marcata tra il 2010 e il 2020, segno che il suolo ghiacciato subisce sempre più rapidamente gli effetti del riscaldamento. Un processo molto preoccupante perché il permafrost artico custodisce circa 1700 miliardi di tonnellate di carbonio congelato, che in caso di rilascio nell’atmosfera potrebbe innescare ulteriori retroazioni climatiche. La liberazione di CO₂ e metano provocata dallo scioglimento, infatti, alzerebbe le temperature, producendo ancora più disgelo e quindi più emissioni. Queste farebbero alzare ulteriormente le temperature e si entrerebbe in un circolo vizioso molto difficile da arrestare.
Grazie ai dati forniti dall’Esa infine, raccolti dai satelliti Copernicus Sentinel-3 soprattutto nelle zone prive di stazioni meteorologiche, è stato possibile identificare le varie regioni terrestri con temperature superiori a 60 °C (hotspot)
Tra le tante notizie di peggioramenti emerge però anche un segnale positivo: i livelli di ozono stratosferico hanno mostrato un recupero importante. Nel 2024, infatti, l’emisfero nord ha raggiunto concentrazioni mai viste dall’inizio del monitoraggio satellitare nel 1979, in alcuni casi paragonabili a quelle degli anni Sessanta, mentre anche l’emisfero sud ha mostrato segnali di ripresa dopo il calo osservato tra il 2020 e il 2022, causato dagli incendi in Australia e da grandi eruzioni vulcaniche.
Foto: Lo scioglimento del permafrost nella zona artica delle Svalbard, Norvegia.
Crediti: Nature Picture Library via Alamy