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Giove ‘cannibale’

Il ‘gigante’ gassoso del nostro sistema planetario avrebbe divorato piccoli corpi planetari per raggiungere le dimensioni extra large con cui lo conosciamo oggi. Ad affermarlo è uno studio pubblicato recentemente su Astronomy & Astrophysics (articolo: “Jupiter’s inhomogeneous envelope”); l’indagine, coordinata da Sron-Netherlands Institute for Space Research, ha visto anche la partecipazione del Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale dell’Università di Roma “La Sapienza”.

La scoperta, che si fonda su modelli informatici, ha consentito di dare un’occhiata sotto l’atmosfera nuvolosa di Giove; per i modelli gli studiosi hanno utilizzato i dati della sonda Juno e, in parte, anche quelli della precedente sonda Galileo, ambedue ‘targate’ Nasa. Juno, lanciata nel 2011, vanta un significativo contributo del nostro Paese, grazie al supporto dell’Agenzia Spaziale Italiana: l’Italia, infatti, ha fornito lo spettrometro Jiram (strumento dell’Inaf-Iaps, realizzato da Leonardo) e lo strumento di radioscienza KaT (Ka-Band Translator, dell’Università “La Sapienza” di Roma, realizzato da Thales Alenia Space-Italia).

Nonostante la mole vistosa, Giove ha sempre fatto trapelare poco di quello che si cela sotto il suo manto nuvoloso. I dati gravitazionali raccolti dalla sonda Juno hanno permesso agli scienziati di mappare il materiale roccioso del pianeta, che presenta una singolare abbondanza di elementi pesanti; questa composizione chimica, per gli esperti, suggerisce che Giove abbia divorato piccoli corpi planetari per raggiungere le attuali dimensioni.

Quando il gigante gassoso si è affacciato alla vita, ha iniziato a crescere attraendo materiale roccioso con la sua forza di gravità; il suo nucleo è diventato poi così denso che ha cominciato a richiamare grandi quantità di gas da cui poi è derivata la fitta atmosfera che lo avvolge. Ci sono due teorie riguardanti la modalità con cui Giove ha radunato il materiale roccioso: in base alla prima, il pianeta avrebbe attratto miliardi di piccoli frammenti (definiti pebbles), mentre per la seconda Giove avrebbe assorbito rocce più grandi, definite planetesimi.

Il nuovo studio si inserisce in questo dibattito su come sia avvenuta la crescita del pianeta: secondo gli autori, i dati ottenuti con i modelli informatici mostrano che Giove sarebbe diventato un colosso ‘ingoiando’ appunto i planetesimi. Questa ipotesi spiegherebbe l’elevata concentrazione di elementi pesanti, rimasti largamente vicini al nucleo e alla bassa atmosfera.

«Lo studio ribadisce ancora una volta lo straordinario valore scientifico della radioscienza, una tecnica di indagine nella quale l’Italia è fra i leader mondiali – afferma Christina Plainaki, ricercatrice nelle Scienze del Sistema Solare dell’Agenzia Spaziale Italiana – Tale tecnica (assieme allo studio del campo magnetico) ci permette di indagare gli interni planetari da satellite, andando a porre vincoli sperimentali in regioni altrimenti inaccessibili».

Gli autori del saggio ritengono che la metodologia utilizzata per studiare Giove possa essere applicata anche ad altri pianeti giganti, sia quelli del Sistema Solare, sia quelli di altri sistemi.

(Crediti immagine: Nasa/Jpl-Caltech/SwRi/Msss – Processamento: Thomas Thomopoulos © Cc By)

Valeria Guarnieri: Nata in tempo utile per vivere sin dall'inizio il fenomeno Star Wars, lavora in ASI dal 2000 e dal 2011 si occupa di comunicazione web presso l'Unità Multimedia dell'ente. Dedica la maggior parte del tempo libero alla montagna, suo grande amore.