Il loro nome non promette niente di buono e infatti le loro condizioni inospitali hanno messo in crisi gli ecosistemi e le attività umane presenti lungo le coste: sono le ‘zone morte’ (dead zone) marine, così chiamate perché il loro livello di ossigeno è talmente basso da incidere pesantemente sulla vita dei pesci e degli altri organismi acquatici.

Le zone morte e le strategie per mitigare i loro effetti sono al centro di uno studio di Remote Sensing of the Environment (articolo: “Satellite prediction of coastal hypoxia in the northern Gulf of Mexico”); l’indagine, che analizza l’applicazione delle osservazioni satellitari a questi tratti di mare, è stata coordinata dal Center for Systems Integration and Sustainability dell’Università Statale del Michigan.

La carenza di ossigeno (ipossia) in queste acque vicine alle coste è connessa all’impiego dei fertilizzanti. Quando queste sostanze chimiche raggiungono il mare, favoriscono un’intensa fioritura algale; poi, le alghe muoiono, si depositano sul fondo e marciscono. La fase di decomposizione, in pratica, ‘divora’ l’ossigeno presente nell’acqua e quindi crea un ambiente inospitale per qualsiasi forma di vita.

Le zone morte possono essere di difficile individuazione e in genere vengono controllate tramite metodi tradizionali, come il prelievo di campioni, non applicabili su vasta scala. Secondo gli autori del saggio, l’utilizzo delle osservazioni satellitari può cambiare drasticamente il monitoraggio delle zone morte permettendo di controllare le acque marine più in profondità e su ampie estensioni. L’area costiera del Golfo del Messico, proprio alla foce del fiume Mississippi, è stata presa in considerazione dal team della ricerca per mostrare come il monitoraggio satellitare possa fare la differenza.

Gli scienziati hanno integrato i dati dei campioni prelevati in loco con quelli satellitari raccolti nel corso degli anni, tracciando un quadro completo delle zone morte e della loro persistenza nel tempo. I dati satellitari, inoltre, possono essere utilizzati per creare applicazioni e modelli informatici mirati a prevedere in tempo reale l’andamento dell’ipossia nelle aree costiere a rischio.

Il fenomeno delle dead zone è piuttosto diffuso: dal 1995 a oggi, ne sono state individuate almeno 500 e la loro estensione complessiva supera quella dell’intero Regno Unito. Il cambiamento climatico, inoltre, può esasperare queste situazioni con ricadute molto pesanti a livello ambientale ed economico. Secondo il gruppo di lavoro, nonostante la disponibilità di costellazioni satellitari per l’osservazione della Terra, c’è ancora molto lavoro da fare: manca una strategia globale che permetta soprattutto di condividere i dati e analizzare meglio i processi che portano alla formazione delle zone morte. Infatti, molto spesso, le sostanze che provocano l’ipossia non provengono dalle aree costiere, ma da molto più lontano inquinando inizialmente i fiumi.

Una migliore circolazione di informazioni – sottolineano gli studiosi – e la creazione di un osservatorio globale potrebbero favorire programmi di mitigazione del fenomeno e una migliore organizzazione delle attività agricole che ora eccedono nell’uso di fertilizzanti.

In alto: fioritura algale lungo una spiaggia cinese (Crediti: Ruishan Chen, Michigan State University)