Ritenuto – un tempo – relativamente immune alle bizzarrie del clima, ora ne sta subendo pesantemente gli effetti e il suo stato di salute è diventato emblematico della crisi climatica in atto: il ‘malato’ in questione è il permafrost, il terreno perennemente ghiacciato diffuso in particolar modo alle estreme latitudini dell’emisfero settentrionale della Terra.

Lo scioglimento di questo prezioso terreno, che riveste un ruolo importante nel sistema climatico del nostro pianeta, è al centro di un recente studio pubblicato su Nature Reviews Earth & Environment (articolo: “Permafrost carbon emissions in a changing Arctic”) e coordinato dal Jet Propulsion Laboratory della Nasa. L’indagine, che fa parte di Permafrost in a warming world (una raccolta di articoli focalizzata su questo tema), è stata realizzata nell’ambito di Arctic Methane and Permafrost Challenge (Ampac); si tratta di un’iniziativa congiunta Nasa-Esa per approfondire le complesse dinamiche del permafrost e del suo disgelo, avendo come punto di vista sia il versante europeo delle regioni artiche, sia quello nordamericano.

Da tempo, infatti, l’andamento questo terreno è tenuto sotto controllo dallo spazio; i dati satellitari, infatti, integrano efficacemente quelli ottenuti in situ e quelli delle missioni aeree e consentono di poter analizzare informazioni raccolte su lunghi archi temporali (anche più di 20 anni).

Una delle conseguenze più gravi dello scioglimento è il rilascio di carbonio nell’atmosfera: nelle viscere del permafrost si sono conservati resti organici (piante e animali), congelati prima che potessero decomporsi. Per rendere l’idea di quanto sia pericoloso questo fenomeno, basti pensare che il solo permafrost dell’Artico ha immagazzinato circa 1700 miliardi di tonnellate di carbonio.

Il nuovo studio illustra come gli scienziati americani ed europei stiano operando in sinergia per tracciare le dinamiche delle emissioni di carbonio e successivamente sviluppare modelli di previsione adeguati. La degradazione del permafrost, che può avvenire anche per termocarsismo, presenta significative variazioni a seconda delle condizioni locali. In alcuni casi, infatti, lo scioglimento è particolarmente veloce e può intaccare anche gli strati più antichi del terreno ghiacciato: questo processo rischia di mettere in movimento le riserve di carbonio intrappolate nello yedoma, un tipo di permafrost molto ricco di materiale organico, formatosi tra 1,8 milioni e 10mila anni fa.

Tra i dati satellitari presi in considerazione per lo studio, vi sono quelli di Smos (Soil Moisture and Ocean Salinity) dell’Esa e di Sentinel-5P del programma europeo Copernicus; la squadra è destinata a crescere in quanto sono in cantiere future missioni spaziali e aeree che terranno sotto controllo anche i delicati ecosistemi artici.

Sono in preparazione, infatti, le missioni satellitari Copernicus Carbon Monitoring e Merlin (collaborazione franco-tedesca), che, rispettivamente monitoreranno le emissioni di carbonio e quelle di metano; lanci previsti nel 2025 e nel 2027. Il versante nordamericano dell’Artico sarà sorvegliato, invece, da due campagne aeree: Arctic Boreal Vulnerability Experiment (coordinata dalla Nasa) e Carbon Dioxide and Methane Mission (coordinata dalla Dlr, l’agenzia spaziale tedesca).

In alto: l’estensione del permafrost artico (Crediti: Esa/Cci Permafrost project)